...segue da Autocrati da 'favola': post verità ed interessi [parte prima]

La legge della giungla vive in una contrapposizione tra la società civile e le élite: banalmente coloro che comandano e che sono sempre meno. Cosa ci si aspetterebbe, del resto, da un Paese in cui, per essere presidente, è (statisticamente) necessario aver studiato a carissimo prezzo in una delle più prestigiose università private, la c.d. Ivy League, (con una retta che mediamente tocca i 50.000 dollari l’anno), ed avere la possibilità – anche se non direttamente – di sostenere una campagna presidenziale che per i due candidati può arrivare a costare cumulativamente 6 miliardi di dollari, come accadde nel 2012?

Questi sei miliardi, se il do ut des non è un opinione e se il finanziamento non è beneficenza, non possono che trasformarsi, probabilmente, in una spirale di favori ai finanziatori più rappresentativi e che più pecunia hanno messo sul piatto.

Il circolo vizioso.

Spiegando il tutto in maniera più semplice diciamo che sembra si tratti di un circolo vizioso in cui, per attrarre il consenso è necessario il denaro. Denaro che - diventando un fattore essenziale per spostare voti - assume la stessa importanza o quasi dei votanti. Ecco l’autoreferenzialità: si contribuisce economicamente, per avere un ritorno economico da parte di chi è al potere che, – si presuppone – presterà le cure e le attenzioni del caso a chi il denaro lo ha messo.

Secondo quest’ottica, che nella sua semplificazione è comprensibile, sarebbe più giusto chiamare investimento quello che invece assume le forme del contributo.

Donald Trump con la sua campagna elettorale fatta di insulti, pantomime e possibili scandali è riuscito a sovvertire il sistema statunitense. In primo luogo è riuscito a contenere i costi (270 milioni) ergo probabilmente meno favori da elargire, ergo possibilmente un minore coinvolgimento negli intrighi altrui.

Risulta poi che il signor Trump sia il primo presidente, da Richard Nixon, a non essere venuto fuori da uno di quei prestigiosi college della Ivy League. Questo non lo rende un campione del popolo, ma anzi dall’alto del suo impero sembra potersi definire un fomentatore, uno spettatore che si fa portatore degli interessi di classe non suoi. Da questo punto di vista l’autocrazia rappresentativa degli interessi di una ristrettissima cerchia, si sposta sul singolo individuo, creando un vuoto il quale - non essendo portavoce di scelte e valori di fondo collettivi – sarà presto riempito, come l’Italia ci insegna, dalla cupidigia del singolo che questa volta si potrebbe definire autoreferenziale.

La politica del più forte.

D’altro canto le politiche trumpiste non potrebbero definirsi molto sociali, anzi per un certo verso possono apparire come uno schizzo di una copia delle politiche reaganiane (vedi la deregolamentazione dei mercati finanziari annunciata dal presidente eletto), una sorta di intolleranza (vedi la questione del muro), e ancora uno smacco alle classi più bisognose (vedi le dichiarate intenzioni di voler estirpare la già poco efficace Obamacare). Cosa farà Donald Trump? Di chi sarà veramente esponente? Di sé stesso? Probabilmente non dei più deboli.

Poca cosa è, a mio parere, la rinuncia da parte di Trump alla gestione delle sue aziende, la cui amministrazione sarà forse delegata ad un trust o ai figli, e che di sicuro non spariranno, rimanendo un polo di conflitto di interessi considerevole per il magnate.

“The future in uncertain, and the end is always near”, scriveva Jim Morrison, e chissà se non si riferisse ad una potenziale fine della democrazia per come la intendiamo. Intanto si profila, per gli Stati Uniti un inizio già vecchio, un film già visto e che, a dirla tutta, non avrà probabilmente nemmeno un bellissimo finale.