Sotto il grattacielo del Rockefeller Center, proprio antistante la pista di pattinaggio è possibile trovare una targa commemorativa della vita di John D. Rockefeller Jr. che apre dicendo “Io credo nel supremo valore dell’individuo e nel suo diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità”. Il testo di quella targa elogia tutte le virtù civili, sciorinando tutto ciò in cui il credo americano consiste. John Rockefeller Jr., si sa, non era l’ultimo dei miserabili che con il suo duro lavoro ha costruito un impero. Figlio di un altro John Rockefeller, egli ha ingrandito l’impero del padre fondato sul petrolio, e che sarebbe con varie peripezie andato a trasformarsi nella ExxonMobil, il colosso petrolifero più grande del nostro tempo.

Le belle favole di una volta.

John D. non era pertanto un solo uomo che ha dato vita ad un suo sogno, ma partiva da solide basi, sebbene di questo non si parli su quelle righe incise sotto il grattacielo che porta il suo nome. Nel frattanto le cose nel mondo sono cambiate rispetto al tempo in cui John D. Jr. incideva su marmo il proprio lascito spirituale, infatti mentre la targa riposa difronte al grande albero di Natale che ogni anno viene issato là davanti, dall’altro lato del mondo (qualche giorno fa) il presidente giapponese Shinzo Abe ha riconosciuto un altro uomo d’affari come Donald Trump come “leader affidabile”.

Il paese dilaniato.

Si tratta di una voce isolata, di fiducia che si leva da un ginepraio di proteste, sommosse e dubbi sulla capacità del nuovo presidente eletto degli Stati Uniti d’America di tenere insieme i pezzi del suo Paese; Paese che invece sembra sempre più propenso a smembrarsi, anche geograficamente e socialmente con le coste multietniche e terziarizzate che hanno espresso un voto favorevole alla Clinton, e l’interno bianco, agricolo e post-industriale, che invece ha spinto Trump alle soglie della Casa Bianca .

Tra le accuse che si muovono nei confronti di The Donald non si deve dimenticare quella di essere digiuno di politica estera. Di questo particolare si è accorto perfino Putin che – prendendo le misure dal neoeletto – adesso tende la mano agli Stati Uniti.

Modelli a confronto.

Su questa base, il confronto da cui è necessario partire è quello non dei due nuovi alfieri sullo scacchiere internazionale, rispettivamente Trump e Putin, quanto dei sistemi che li hanno partoriti.

Se da un lato la Russia viene spesso considerata di essere un sistema timocratico in cui il governo rappresenta contemporaneamente un passacarte dei grandi magnati ed un propulsore dei loro interessi , siamo certi di poter dire che gli Stati Uniti siano da meno?

Gli Stati Uniti d’America, che ancora si definiscono iconicamente the land of the free, dell’autodeterminazione del singolo, nel senso voluto da quella targa di cui abbiamo accennato, hanno smesso di esserlo ormai da alcuni decenni, o forse hanno cominciato a diventarlo sul serio, specie se all’immagine di libertà si associa quella di una giungla, dove la legge è quella del più forte, del più spietato.

Sebbene ancora personalità di tutti i ceti sociali (e non solo americani) considerino gli States il luogo ove anche l’ultimo dei diseredati può essere posto a capo di una grande azienda se ha le capacità giuste, i numeri indicano il contrario.

Questi numeri, infatti, parlano univocamente di una discesa verticale degli indici di mobilità sociale, cui non può che corrispondere un ristagno nelle classi dirigenti anche statunitensi.

Si sa, poi che quando si è sempre gli stessi pochi alle feste ci si comincia ad annoiare, si finisce per conoscersi tutti, e alla fine capita anche che ci si dimentichi dell’esistenza di chi alla festa non è invitato.

[continua]