Dopo l'accordo di Vienna del novembre scorso, fra i paesi membri del cartello OPEC, è stato raggiunto un accordo per una riduzione della produzione a quota 1,2 milioni di barili giornalieri. Questo patto doveva entrare in funzione nel corso di quest'anno e al momento è stato rispettato da tutti i paesi che vi hanno aderito con l'Arabia Saudita che addirittura ha maggiormente tagliato la sua produzione.

A fine anno, sempre a Vienna, l'accordo è stato esteso ai paesi non Opec, produttori di petrolio, fra cui spicca la Russia, che però ad oggi hanno ridotto solo il 50% della quota prevista contro il 90% dei paesi del cartello.

Negli Stati Uniti invece, ogni settimana, secondo il rapporto Baker Hughes sugli impianti di trivellazione di shale oil americano, continua ad aumentare e le scorte settimanali di prodotto stanno aumentando progressivamente.

I fondi hedge, che scommettono sul rialzo delle quotazioni, dagli attuali 54-55$ ai 60$, detengono circa 903mila posizioni long, ovvero di acquisto di prodotto, in pratica il 90% dell'esposizione totale.

Petrolio, la quiete prima della tempesta

La domanda più spontanea che ci si potrebbe fare è relativa alla convenienza per i membri Opec, di ridurre il proprio output, per poi vedersi soffiare la richiesta da altri players, quali gli Stati Uniti. La politica protezionistica di Trump, vorrebbe portare l'indipendenza energetica per il suo paese che sta diventando anche un grande esportatore, visto che ultimamente la Cina è diventato un mercato importante per il petrolio.

Ma se l'accordo è stato fatto per avere un petrolio oltre i 50 dollari al barile, perché poi farsi soffiare importanti quote di mercato da chi ha solo approfittato di questa crescita, addirittura aumentando la propria produzione? Senza contare poi che la Russia è uno di quei paesi di cui non ci si può fidare e soprattutto i rapporti molto stretti fra l'amministrazione americana e Putin potrebbero comportare qualche tacito accordo a vantaggio di entrambi e a discapito del cartello.

Petrolio, il fattore inflazione

C'è poi da considerare un aspetto importante che è quello dell'inflazione, il cui livello ideale, il 2%, è inseguito da tutte le banche centrali. Sicuramente dalla BCE di Mario Draghi, ma anche dalla Fed di Yanet Yellen e via via da tutti gli altri istituti di credito che impostano poi le proprie politiche monetarie relative ai tassi d'interesse.

I dati positivi recenti sull'inflazione in Europa, ad esempio, sono stati condizionati dall'aumento dei prezzi del greggio e quindi dal settore energetico. Sia Mario Draghi che la Yellen, vorrebbero modificare con cautela le proprie politiche e rivedere con calma il livello ideale dei tassi d'interesse e per questo, un petrolio in calo raffredderebbe un'economia un po' troppo in ebollizione.

Questo fattore viene accentuato negli Stati Uniti, dove Trump ancora non ha rivelato il proprio programma fiscale. Per il petrolio una cosa è certa, rally o crush, il movimento sarà molto ampio.