Oggi 18 aprile 2017 viene celebrata la giornata nazionale delle vittime dell'immigrazione.

Essa celebra la memoria delle vittime del tremendo naufragio avvenuto la notte tra il 2 e il 3 ottobre del 2013 a largo delle coste di Lampedusa e di tutte le altre persone che hanno trovato la morte nelle stesse circostanze.

Sono passati ormai tre anni da quella terribile notte, molte parole sono state dette dai vertici italiani ed europei, ma poco è stato fatto. Da quel momento sono morte in mare altre 11 mila persone tra cui 3500 solamente nello scorso 2016.

Un tema e una realtà che sembrano toccare la sensibilità anche dei giovani e non quella di coloro che paradossalmente hanno il potere di cambiare le cose ma che per motivi oscuri , o forse fin troppo chiari, si limitano a tamponare la situazione.

Ecco cosa ha scritto uno studente di un liceo di Roma quando gli è stato chiesto di immedesimarsi in un migrante.

Cara Fatima,

ti chiedo scusa se mi faccio sentire così raramente, ma dei pochi soldi che riesco a racimolare spesso non me ne rimangono neanche a sufficienza per una telefonata. Oggi, però, ho rimediato un po’ di carta e una penna e così ho deciso di scriverti una lettera, come facevamo da ragazzi. Ricordi?

Ho un sacco di novità da raccontarti: ieri mi hanno trasferito, insieme ad altri venti ragazzi, in un centro di accoglienza a Roma; non è male, è un bel posto.

Era da tanto che non dormivo su un vero letto. Purtroppo, però, neanche il letto più comodo del mondo riuscirebbe a soffocare e a scacciare i miei incubi. Continuo a sentire gli spari nel sonno, gli uomini di Al-Assad che gridano il mio nome. Rivivo ogni notte il viaggio sul barcone, vedo la gente in acqua che mi prega di aiutarla ma io, intirizzito dal freddo, non riesco a muovere un muscolo; sono impotente…muoiono davanti ai miei occhi.

La notte è il momento peggiore per tutti: è il momento dell’angoscia, delle lacrime e della paura per un avvenire incerto e imperscrutabile e,soprattutto, per la sorte delle famiglie e dei cari che sono rimasti a subire la guerra e che nessuno sa se potrà rivedere. Questi sentimenti ci accomunano tutti dentro questo stanzone buio e pieno di brande; non importa l’età e la nazionalità: siamo tutti schiavi della paura e dell’angoscia.

Proprio ieri notte ho conosciuto un altro profugo siriano, Si chiama Ahmed. Piangeva per suo figlio morto durante la traversata in mare verso l’Italia. Aveva la stessa età del nostro piccolo Ryad. Quanto mi manca il nostro principe, mi mancate tutti e due.

Sai, Fatima, hanno detto che forse, tra qualche giorno, la mia richiesta di asilo potrebbe essere accettata. Potrò uscire e andarmi a cercare un lavoro e, pregando Dio, potremo parlare al telefono tutte le sere e potrò mandarvi dei soldi; potrò farvi venire qui. Sono in pena per voi. Penso che inizierò a chiedere se hanno un posto di lavoro all’area di servizio che ho visto dal pullman, mentre venivamo al centro d’accoglienza, anche se non penso che mi assumerebbero.

La gente qui ci guarda in modo strano, quasi fossimo animali pericolosi. Il loro sguardo è un misto di paura e di disprezzo. Io non capisco. Ci vedono come invasori, ma non pensano che preferiremmo rimanere nel nostro paese, in casa nostra, con la nostra famiglia? Noi scappiamo dalla guerra, dalla repressione, dalla povertà e dalla morte: non avevamo scelta.

A volte guardo il telegiornale, vedo le immagini di Damasco ridotta sempre più un cumulo di macerie , persino peggio di quando sono partito. I bei giardini verdi dove giocavo da bambino non esistono più. Spero che questa maledetta guerra finisca presto, così potrei tornare da voi, che mi mancate enormemente; potrei ricominciare a lavorare, magari potrei aprire uno studio di avvocati tutto mio, potrei portare Ryad al parco a giocare come dovrebbero fare tutti i bambini, come tutti i bambini dovrebbero avere la possibilità di fare.

Vorrei tanto potervi riabbracciare ora.

Quando sono partito per scappare dai sicari di Al-Assad, sapevo che sarebbe stata dura vivere lontano dalla mia famiglia e in un paese straniero ma non pensavo fino a questo punto. Noi profughi siamo tantissimi e l’Italia non ce la fa a gestirci tutti; non tutte le richieste di asilo vengono accettate, molti vengono rimpatriati, altri scappano. Inoltre, non c’è molto lavoro qui, la situazione è più difficile di quanto mi aspettassi e, con il tempo, mi rendo conto che dovrò stare lontano da voi ancora molto e questa cosa mi uccide. Ora , però, basta parlare di me, raccontami come ve la state cavando. Come state? Come stanno i miei genitori? Ryad è cresciuto molto?

E la guerra? Le notizie qui arrivano parziali e non le capisco.

Rispondimi presto e restate nascosti. Dai un bacio a Ryad da parte mia. Vi tengo nel cuore e vi abbraccio forte.

Tuo marito, Amir Al-Fayed