Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha compiuto un tour diplomatico come rinnovato segnale di pace presso le tre religioni monoteiste: è partito dell’Arabia Saudita, passato per Israele e si è concluso con l’udienza a Roma da Papa Francesco, prima del vertice G7 di Taormina. L’iniziativa è ancora più cruciale se si considera l’ultimo attentato suicida al concerto di Ariana Grande a Manchester, tra l’entusiasmo dei siti web jihadisti che hanno salutato la strage di ragazzi e bambini come doveroso attacco ai “crociati”.
Diplomazia e rivoluzione del linguaggio
Trump ha tenuto il suo discorso a nella capitale saudita Riad di fronte a circa 50 leader, rappresentanti del mondo sunnita, mostrandosi diplomatico ma, al tempo stesso, rivoluzionario rispetto alle previsioni della vigilia. Nessun presidente americano aveva indicato una strada tanto precisa da seguire, articolata su due pilastri: una mobilitazione antiterrorismo su scala globale senza tentennamenti e una richiesta perentoria di cacciare i fondamentalisti dai luoghi di culto, dalle comunità, dai luoghi santi per i musulmani e dalla stessa terra saudita. Un’affermazione senza precedenti di un leader occidentale di fronte a un consesso islamico di alto livello.
Quel “drive them out”, ripetuto quattro volte, rimbomberà a lungo: il mondo sunnita deve fare pulizia in casa sua una volte per tutte.
Le tre note dolenti del discorso di Trump
La mobilitazione contro i gruppi terroristi islamisti e e l’estremismo della stessa matrice è un'altra pesante stoccata perché la sottolineatura islamista, associata al terrorismo, rompe un tabù, considerando che compare di rado nei media e nel linguaggio diplomatico in favore di formule più generiche e politicamente corrette.
La ciliegina sulla torta è l’invito a sollevarsi tutti insieme non solo contro l’uccisione di musulmani innocenti, vittime di attentati, ma anche per contrastare l’oppressione delle donne, la persecuzione degli ebrei e il massacro dei cristiani. Tre note dolentissime che molti islamici non condividono affatto.
Realpolitik e pragmatismo da imprenditore
Trump sembra aver ceduto all’establishment, mettendo sul piatto degli accordi 110 miliardi di dollari in aiuti militari all’Arabia Saudita che è ambigua verso il terrorismo, pratica il culto wahabita, non meno integralista del salafismo caro all’Isis e finanzia madrasse fondamentaliste. Il presidente degli Stati Uniti ha una formazione imprenditoriale che lo spinge a prendere le redini nel suo stile sanguigno per portare a casa l’accordo più vantaggioso, ma la realpolitik lo induce anche a consolidare la sua leadership con una prova brillante in sede internazionale, per rintuzzare gli attacchi frequenti degli oppositori interni e creare un clima di convivenza politica più accettabile.
Fronte sunnita in funzione anti-iraniana
La leva economica rinsalda una collaborazione contrastata con l’Arabia Saudita e Trump sostiene, con riserva, il fronte sunnita in funzione anti-iraniana. Non a caso, ha dichiarato che il pericolo maggiore è l’Iran scita con le sue ambizioni nucleari perché l’argomento tocca un tasto molto sensibile tra i sunniti che temono l’espansione di Teheran in Medio Oriente e devono rinsaldare su questo fronte l'alleanza con gli Stati Uniti.
La strategia a largo raggio
La mobilitazione antiterrorismo non può evitare il coinvolgimento dell’Arabia Saudita, ma neppure trascurare il ruolo strategico dell’Egitto, che Trump ha ampiamente riconosciuto nel suo discorso a Riad.
Tuttavia, la lotta all’integralismo s’inserisce in una cornice più ampia nella quale, a partire dal fronte caldo siriano, Iran, Russia, Turchia e Israele si muovono come attori principali sulla scena. Il discorso aveva quindi due obiettivi: gettare le basi di un equilibrio più stabile nella regione attraverso un’alleanza molto ampia e inviare un messaggio chiaro a tutte le potenze dell’area che dovranno agire sotto il rinnovato sguardo vigile di Washington.