Ho provato a togliermi di dosso l'invidia (500mila euro circa al mese per un ragazzo appena maggiorenne che ha appena la licenza media è difficile da digerire) e la classica reazione da pseudo moralista che viene spontanea al bar, davanti a uno sprintz ("lo sai quanti ospedali e scuole si potevano costruire con i soldi di Neymar?". Ancora: evitare di snocciolare un “pippone” di analisi macroeconomica discettando di fondi sconosciuti e stati sovrani che hanno incominciato ad aggiudicarsi, a suon di miliardi, calciatori che sfornano quattrini, per immergermi (mi sarà concesso) in un’analisi puramente antropologica attorno al delicato e chiacchierato binomio mefistofelico soldi e calcio.

Alla comunità dei tifosi. In questo mondo dove il bar si è trasferito davanti a una tastiera, troviamo chi pontifica, si indigna e straccia le vesti per la cifra monstre che ha riguardato il recente trasferimento di mercato del brasiliano Neymar: dal Barcellona al Psg per 222 milioni di euro. Una cosa insopportabile. Viene da dire, ahimè, coloro che oggi (tanti) si scandalizzano, fanno parte dello stesso gruppo, della medesima maggioranza che fa vivere, arricchire e ingrassare il costosissimo giocattolo chiamato calcio. Voglio dire in sostanza che coloro che minacciano di scendere in piazza, imbracciare i forconi scagliandosi contro gli “ingaggi che non pensano a chi è senza lavoro”, proprio loro, sono i primi che controllano, tanto per fare un esempio, ad ogni ora del giorno, siti e televisioni, sbrodolandosi ad ogni voce di mercato che riguarda la propria squadra del cuore.

La maggioranza che si affretta (e si sta già affrettando, credetemi) a stipulare l’abbonamento (“a costo magari di qualche sacrificio a casa”) di Sky e Premium per non perdersi nemmeno una partita del prossimo campionato. O Sbaglio? Non è la stessa maggioranza (adesso mi rivolgo a voi, mamme) che corre dal barbiere per sperimentare sul proprio piccolo campioncino in erba il taglio di capelli alla moda, scimmiottando i vari Cristiano Ronaldo, Pogba.

Che macinano chilometri su chilometri: in inverno (al freddo) e in estate (sotto il sole), per seguire i propri “ragazzi”ovunque per il globo terracqueo. Spendendo quattrini, Un tempo si diceva panem et circenses. Ma la sostanza non è cambiata. Diciamolo fuori dai denti: è questa la maggioranza (e lo scrivente ci si mette dentro in pieno) poco silenziosa, e ancora meno abituata ad agire, che rende, e renderà, ancora più ricchi, nei secoli dei secoli, i vari Neymar, Pogba e Donnamura, sudando, soddisfatta, inscatolata dentro lunghe file fuori dallo store e dallo stadio per acquistare la casacca ufficiale o l’abbonamento.

I più arricchiscono i pochi. Senza accorgersene. Accompagnando, a giorni alterni, il tutto con improperi, lamentele e commenti da difensori del proletariato contro questi ragazzetti miliardari e viziati. Che loro stessi, un minuto dopo, inneggiano a idoli. C'è qualcosa che non quadra.

Ma andiamo al punto. Non si chiede ovviamente di proporre una lotta di classe dentro il rettangolo verde. La questione è un’altra. Cercare di togliersi il mantello da moralisti da quattro soldi. Ogni cosa ormai è merce. Diciamocelo, il calciatore è un (gran) bel lavoro. Chi non vorrebbe crescere un figlio che abbia un briciolo di talento e sappia correre dietro a un pallone. Avrebbe certamente vita più facile di un laureato, un dottorando.

Di un operaio in catena di montaggio. Avrebbe, diciamolo, più anticorpi al virus del precariato e della disoccupazione. Quante banalità insomma. A quanto pare non è vero che un laureato vale più di calciatore distorcendo una celebre canzone del grande Guccini. Proseguiamo. Se oggi una società privata vuole pagare un uomo (ribadisco, un essere umano) più di 100 milioni di euro è liberissima di farlo (in altri sport, succede molto di peggio). Legalmente e soprattutto moralmente. Nonostante, per dirne una, ancora oggi un miliardo di persone vivano in stato di indigenza. E’ il capitalismo, bellezza. L’arma che il 99 per cento che conta niente può usare, credo, è una e una sola: ignorare, boicottare, spegnere la Tv o non andare più allo stadio.

Missione impossibile: provate voi in Italia a fermare un campionato, sono certo che assisteremmo a rivolte di piazza. Dell’intrattenimento ne abbiamo bisogno, è proprio il caso di dirlo, come il pane. Ci fa stare bene, ci fa mandare giù le brutture del quotidiano. E’ aspirina dell’anima. Tuttavia se non siamo capaci di portare avanti questa ribellione non violenta all’“indegna ricchezza del mondo del pallone” come si sente dire, non ci resta che farci (tutti) un bel esame di coscienza, rendersi conto che siamo proprio noi, che "fatichiamo ad arrivare alla fine del mese”, a mandare avanti questo circo Barnum che è il calcio moderno. Ripeto se non ne siamo capaci, e soprattutto non ci passa per la testa nemmeno di provarci, propongo un'azione rivoluzionaria quanto semplice.

Continuare a compilare il Fantacalcio davanti a cappuccio, brioche e Gazzetta. Attendere che venga settembre, poi accendere il televisore, bersi una birra e godersi semplicemente lo spettacolo. Senza pensarci troppo. Evitando giudizi tagliati con l'accetta e sfoghi da quattro soldi. Non se ne può più. Perché no, esultando a ogni rete del nostro idolo. Ovviamente strapagato. Saremo tutti più felici e molto (molto) meno ridicoli e ipocriti.