Le vicende politiche ed istituzionali che stanno coinvolgendo l'Italia in queste settimane, hanno fatto sì che l'UE tornasse a puntare i riflettori sulla preoccupante situazione economica del nostro paese. In particolar modo, dalla Commissione europea giungono richiami sulla riduzione di deficit e debito pubblico, temi tornati in auge in seguito alle trattative Lega-M5S per la formazione di un governo espressamente euro-scettico che non sembrava intenzionato alla riduzione del rapporto deficit\pil.

L'avvento del neoliberismo

Prima di entrare nel dettaglio delle vicende politico\istituzionali che stanno interessando il nostro paese e l'Europa in generale, è opportuno inquadrare la situazione attuale all'interno di un contesto più ampio che fa riferimento ai nuovi rapporti tra Stato e mercato.

Da qualche decennio, ormai, si è instaurato un nuovo paradigma istituzionale che avvicina alla sfera pubblica (cioè allo Stato e alle amministrazioni) un'altra istituzione, in parte non regolamentata dal pubblico: il mercato. Per non entrare eccessivamente nello specifico, e per non spostare il dibattito su un argomento diverso da quello che questo articolo si propone di affrontare, è sufficiente configurare l'avvento di questa nuova "collaborazione" tra Stato e mercato all'interno delle dinamiche di neoliberalizzazione che hanno preso forma in questi anni.

Come si è visto anche dalle vicende politiche di questi giorni, al ruolo politico di rappresentanza e partecipazione pubblica, è subentrato un nuovo attore, di natura economica, che vincola l'operato della sfera Politica.

La necessità di fare letteralmente i conti con un organismo sovranazionale che impone certe restrizioni (come può essere il dover fronteggiare il crescente debito pubblico) costringe gli attori politici a rivedere il loro operato, adeguandosi alle nuove norme di natura finanziaria: un esempio calzante consiste nel veto posto dal Capo dello Stato Sergio Mattarella al Ministro dell'economia proposto da Di Maio e Salvini, poiché avrebbe messo a rischio la già precaria posizione economica dell'Italia in Europa (Savona, in alcuni suoi saggi, avrebbe più volte ribadito la necessità di abbandonare la moneta unica e quindi l'UE).

Il "mostro spread"

Lo spread ha raggiunto livelli che non si vedevano ormai da 5 anni in Italia. Ma proviamo a chiarire innanzitutto cosa si intende con questo termine, e quali sono i principali vincoli che ci legano alla confederazione dell'UE. Quello dello spread non è un tema troppo complicato da comprendere: è un indice che rappresenta la capacità dello Stato italiano di restituire i debiti che ha contratto con coloro che hanno fornito dei prestiti (mercati mondiali ed investitori privati, non solo con la BCE), soldi che naturalmente devono essere restituiti con un certo tasso d'interesse.

Questo indice fa riferimento alla differenza di valore tra i titoli di Stato tedeschi, i cosiddetti bund, e i titoli del tesoro italiani (BTP).

Più lo spread è alto, maggiori saranno i tassi d'interesse che l'Italia dovrà garantire per ripagare i suoi creditori: gli investitori, infatti, ripongono più fiducia in quei paesi con bassi livelli di spread, in quanto ciò evidenzia una maggiore stabilità economica. Ipotizziamo, dunque, che a causa di un notevole incremento di quest'indice, gli investitori esteri siano più restii a prestare soldi allo Stato italiano: per attirare gli investitori a comprare i titoli di stato, l'Italia sarebbe costretta a promettere alti tassi d'interesse (in altre parole, promettendo a coloro che investirebbero del denaro nel nostro paese di ottenere un ricavo pari al doppio dei soldi investiti), ma da dove si ricaverebbe poi la cifra necessaria per ripagare gli investitori?

Dai contribuenti, cioè i cittadini, che vedrebbero innalzarsi il tasso d'interesse del mutuo per la casa o del finanziamento per comprare la macchina, soldi in più che servirebbero per sanare il debito contratto con gli investitori che avrebbero "scommesso" sulla crescita dell'Italia.

Anche la BCE è uno tra i tanti investitori: se il nostro livello di spread si alza troppo (la mattina del 29 maggio ha toccato quota 320, livello più alto dopo il 2013) questa, insieme ad altre banche estere o ad altri attori privati sparsi in tutto il mondo, potrebbe negare i prestiti al nostro paese, fino a che non verrebbero ripagati i debiti precedentemente contratti (che in Italia corrispondono al 130% del PIL, cioè a più o meno 2.200 miliardi di euro).

A questo punto, è logico pensare che all'ipotesi - paventata più volte in campagna elettorale da Lega e Movimento 5 Stelle - di abbandonare la moneta unica, l'UE possa rispondere negando ogni fiducia nei confronti del nostro paese. Diventa chiaro come una situazione di incertezza politica sia irrimediabilmente connessa ad una situazione di instabilità economica, in quanto gli investitori (banche, privati) ripongono sempre meno fiducia nel debitore (Italia).

Viene a mancare, dunque, la certezza degli investitori sul fatto che chi andrà al governo sia intenzionato ad impegnarsi non tanto nell'azzeramento, ma quantomeno nella riduzione del debito pubblico (nel "contratto di governo" redatto da Lega e M5S, ad esempio, non si faceva cenno ad una riduzione del debito, ma al contrario era stato inserito un aumento della spesa pubblica e un taglio delle tasse; strategie che uno Stato con un debito elevato come quello italiano non può permettersi).

Un connubio impossibile?

Dopo il mancato insediamento del governo giallo-verde e la crescente instabilità politica (sono quasi 3 mesi che l'Italia è senza una maggioranza parlamentare), dettata dalla presa di posizione del Capo dello Stato, deciso a rispettare i vincoli imposti dall'UE, si potrebbe tornare a dibattere su un'eventuale rinuncia dell'Italia agli accordi internazionali che la inquadrano all'interno dell'Unione Europea.

Per ragioni di natura economica, politica, sociale e culturale, non è possibile cercare di imitare la decisione presa dal Regno Unito di abbandonare l'UE; occorre rimanere con i piedi per terra. L'Italia, come accennato, ha un debito pubblico secondo solo a quello della Grecia, mentre quello inglese nel 2016 (un anno prima della Brexit) era di 88 punti percentuali rispetto al PIL, quasi il 50 % più basso del nostro.

Ad ogni modo, anche se fosse possibile parlare di Italexit, e ipotizzando che con l'uscita dall'Eurozona l'Italia sarebbe in grado di guadagnare in termini di competitività grazie all'abbandono della moneta unica, dovremmo prima fare i conti con diverse criticità. Queste sono state riportate da Lorenzo Codogno e Giampaolo Galli in un libro: i due economisti mettono innanzitutto in evidenza il fatto che la crisi italiana non sia da ricondurre esclusivamente all'adozione della moneta unica, bensì da una serie di errori e di riforme mancate "fatti in casa". Entrambi sottolineano, inoltre, che il nostro paese avrebbe bisogno di riforme strutturali che l'aiutino ad incrementare la competitività e ad aiutare la crescita, anche qualora si decidesse di abbandonare l'UE.

Infine ritorna il problema dell'instabilità finanziaria: volenti o nolenti, la nostra economia risponde alle fluttuazioni dell'euro, dunque un'uscita incrementerebbe la portata della crisi. Quello che dovrebbe essere chiaro a tutti è che, al giorno d'oggi, la politica deve rispettare i vincoli economici che vengono decisi dalla collaborazione tra gli Stati. Non va dimenticato, infatti, che in diversi paesi dell'UE (tra cui l'Italia, l'Ungheria o la Spagna) la politica economica europea viene spesso utilizzata come alibi dai leader populisti per sostenere la necessità di dover uscire dalla moneta unica; in questi casi, piuttosto che agire attivamente per proporre alternative ad una politica economica criticabile, questi paesi si scagliano contro l'operato UE, delegittimandone il ruolo.

Piuttosto che ragionare sull'abbandono definitivo della confederazione europea, sarebbe il caso di riflettere su un cambiamento delle modalità di cooperazione con le istituzioni europee: l'Italia ha la capacità di competere con le economie internazionali, e ha l'opportunità di sedere ai tavoli istituzionali con le più grandi potenze del Vecchio Continente per far valere le proprie ragioni e portare avanti i propri progetti (come immigrazione o lotta al terrorismo); quello dello Stato italiano dovrebbe essere un ruolo più attivo, in grado di incentivare la competizione, dando nuovamente vigore ad un'Europa che sembra essere sempre più subordinata all'economia tedesca. Quel che manca per raggiungere questi obiettivi è "solo" un governo coeso e competente.