Introduzione: una premessa sul futuro della democrazia

Con questo intervento ripropongo in modo ravvicinato lo schema argomentativo di un mio recente contributo dedicato alla «violenza» nei contesti sociali sensibili(1) per includervi una riflessione approfondita sul futuro della democrazia secondo quattro livelli (linguistico, temporale, spaziale ed infine etico-politico). Nelle Riflessioni sulla violenza (1908), il filosofo e politico socialista francese Georges Sorel(2) distingue tra forza e violenza, immaginando «il passaggio dal capitalismo al socialismo come una catastrofe, il cui processo sfugge alla descrizione». Entro tale cornice, mentre la forza «ha per oggetto di imporre la organizzazione di un certo ordine sociale nel quale governa una minoranza», la violenza «tende alla distruzione di questo ordine», imponendo di fatto a tutto l’assetto sociale terrore e sottomissione, annullando di fatto il significato e la ragione stessa delle «minoranze»(3).

Se valorizziamo tale assunto, la pratica maggioritaria della violenza diventa espressione precipua del «dominio»(4) di tutti su tutti, grazie al supporto delle immagini che sfuggono alla regole della logica perché si fondano su miti che risultano essere gli strumenti migliori per agire sul presente: «bisogna fare appello – scriveva ancora Sorel – a degli insiemi di immagini capaci di evocare in blocco e per mezzo della sola intuizione, prima di ogni analisi ponderata, la massa dei sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra intrapresa dal socialismo contro la società moderna»(5).

Ora, uno di questi miti, tramandati oggi dalla violenza linguistica quotidiana in tempo di pandemia da coronavirus, afferma che ci troveremmo di fronte alla fine di un’epoca (quella appunto pre-pandemica), e che l’epoca a venire sarebbe caratterizzata da forme di vita alienate e tracciate in ambienti delimitati e protetti, con una evidente messa in crisi della democrazia intesa sia come partecipazione condivisa allo spazio e al tempo pubblici, sia come libera interazione con l’ambiente naturale.

Dall’interazione di tutti questi fattori – biologici e morali, individuali e collettivi – prende forma la pratica della violenza come forma del terrorismo politico, ma anche della semplice contestazione, la quale richiede tuttavia qualche considerazione a parte che avanzeremo in conclusione del contributo, soprattutto perché la violenza intesa come semplice contestazione e rifiuto della legittimità di un determinato sistema sociale o politico non può essere equiparata alla violenza come pratica del terrorismo.

La democrazia e il linguaggio

Ora, venendo alla prima forma di violenza – quella linguistica – occorre prendere in esame quanto sta ancora accadendo a livello mondiale con la crescente pervasività del coronavirus, dunque a seguito della dichiarazione di «stato di pandemia» da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità recepita dai vari governi nazionali, fino alle realtà territoriali più circoscritte come le province e i comuni. Dall’analisi dei linguaggi ripetutamente impiegati nel corso di questo stato emergenziale pandemico si evince un dato rilevante: le parole come «guerra», «malattia», «eccezione», «emergenza», «chiusura», «contenimento», «controllo», «tracciabilità», sono tra le più ricorrenti, contribuendo ormai a definire un nuovo ordine sociale dalla natura temporanea ma nel contempo sempre rinviabile, prolungando inevitabilmente i tempi individuali e sociali dell’«attesa», e mettendo soprattutto in questione il ritorno alla «normalità» (quest’ultimo punto è forse il più decisivo in relazione alla presente indagine, soprattutto se teniamo conto della crisi della democrazia in atto).

La violenza insita in questo «ordine del discorso»(6) temporaneo ma sempre procrastinabile, contribuisce alla costituzione di un nuovo ordine sociale, in cui il «principio di precauzione»(7) – conseguenza diretta del «principio di prestazione», il quale, essendo «il principio di una società acquisitiva e antagonistica in processo di espansione costante, presuppone un lungo sviluppo durante il quale il dominio è stato sempre più razionalizzato»(8) – impone ai singoli un insieme di misure cautelative verso pericoli e rischi potenziali, che nel caso del coronavirus – va detto – sono ben giustificate dalla domanda sociale di protezione della salute, ma che, nel contempo, non ha esonerato alcune voci critiche dal porsi l’interrogativo se questo stesso principio di precauzione possa essere invocato anche per perseguire scopi politici di altra natura, ad esempio di controllo sociale come dipendenza.

Diversamente da quanto accade con il linguaggio predittivo della migliore democrazia progressista, in seno alla realtà pandemica la parola «violenta» è essenzialmente «performativa», giacché assurge tanto a veicolo di precauzione e contenimento dell’ordine sociale, che a giustificazione di questo stesso nuovo ordine «emergenziale»: come ha mostrato bene Foucault, il discorso non è solamente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, «ma ciò per cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi»(9).

La parola violenta che dà forma e contenuto a questo nuovo ordine emergenziale – del quale molti paiono già contendersi il controllo (non solo politico ma soprattutto ideologico) – contribuisce in modo decisivo a creare nuove abitudini individuali e sociali regolamentate dalle emozioni della paura e del disgusto, ma anche dalla sensazione più indeterminata dell’angoscia, conseguente allo sconvolgimento dell’interazione dinamica e regolare tra io e ambiente(10).

Come mostra bene la parola tedesca Erschütterung (lo rilevava già il neurologo e psicologo ebreo-tedesco Kurt Goldstein nella prima metà del Novecento) – che si traduce solitamente con «sconvolgimento» oppure con «messa in crisi» e finanche con «disincanto» come in Walter Benjamin – tale fenomeno psicologico presuppone l’esperienza di una sfasatura catastrofica (spazio-temporale) tra la durata dell’io e quella della realtà, sulla cui base l’io finisce per perdere completamente tanto la propria unità fenomenologica che la stessa possibilità di restare in connessione attiva con l’ambiente (Umwelt)(11).

La parola violenta sembra inoltre contribuire in modo molto efficace alla genesi di una nuova forma di consenso collettivo, un consenso «esclusivo» e perciò profondamente antidemocratico, in quanto fortemente radicato nella esclusione automatica dell’altro percepito come «minaccia potenziale», e perciò fonte di frustrazione, risentimento e invidia di fronte a qualsiasi «differenza», dunque di alternativa.

La parola violenta contribuisce dunque alla creazione di una rivisitata «psicologia delle folle»(12), in cui, tuttavia, la minaccia esterna che tradizionalmente rinforzava la coesione di gruppo, risultando in questo caso difficilmente identificabile, finisce adesso per disgregarlo dalle fondamenta, ricacciando ciascun singolo nella propria solitudine e nel proprio isolamento («l’unico e la sua proprietà», di stirneriana memoria(13)), come monadi senza porte né finestre.

Leggi la seconda puntata: la democrazia di fronte alla violenza temporale

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Note:

  1. Roni, Riflessioni filosofiche sulla violenza come fenomeno linguistico, temporale, spaziale e politico: uno sguardo all’attualità, in S. Gianfaldoni (a cura di), Violenze al bivio. Quando la violenza di genere viene esercitata nei contesti sociali, professionali, familiari, FrancoAngeli, Milano 2020, pp. 283-297.
  2. Sorel, Riflessioni sulla violenza, in Id., Scritti politici, a cura di R. Vivarelli, UTET, Torino 1996, p. 245.
  3. Ivi, pp. 275-276.

  4. Per un’ampia panoramica sulle diverse esperienze di dominio e sottomissione, si veda R. Bodei, Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale, Il Mulino, Bologna 2019.

  5. Sorel, Riflessioni sulla violenza, cit., p. 213.

  6. Cfr. M. Foucault, L’ordine del discorso e altri interventi, trad. it. di A. Fontana, M. Bertani e V. Zini, Einaudi, Torino 2004.

  7. Un contributo imprescindibile al riguardo è quello di C.S. Sunstein, Il diritto della paura. Oltre il principio di precauzione, trad. it. di U. Izzo, Il Mulino, Bologna 2010 (edizione originale: 2005).

  8. H. Marcuse, Eros e civiltà, trad. it. di L. Bassi, introd. di G. Jervis, Einaudi, Torino 2001, p. 88.

  9. M. Foucault, L’ordine del discorso, cit., p. 5.

  10. Su questi temi, M.A. Galanti, Fragilità identitarie, educazione al conflitto e bisogno di utopia, in E. Profumi, A.M. Iacono (a cura di), Ripensare la Politica. Immagini del possibile e dell’alterità, Edizioni ETS, Pisa 2019, pp. 137-148.

  11. Su questo in particolare si veda il contributo di Kurt Goldstein, Der Aufbau des Organismus. Einführung in die Biologie unter besonderer Berücksichtigung der Erfahrungen am kranken Menschen, M. Nijhoff, Den Haag 1934, pp. 187-198.
  12. Cfr. G. Le Bon, Psicologia delle folle, trad. it. di L. Morpurgo, Longanesi, Milano 1970.
  13. M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, trad. it. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1979.