Aicha era una brillante ragazza tunisina, con una laurea in Scienze della Comunicazione e una vita gravida di speranze. Aicha era probabilmente uno dei più bei fiori sbocciati dopo la Primavera araba. Poi, improvvisamente, un doppio folle innamoramento: per il marito, un ex calciatore del campionato tunisino e per la guerra che l’islamismo fondamentalista aveva dichiarato al mondo. Così segue il marito, si arruola nell’Isis e diventa, ex intellettuale di belle speranze, “poliziotta morale” della brigata Al-Khansa, composta esclusivamente da donne e incaricata di controllare le prigioniere nei bordelli gestiti dall’Isis.«In ginocchio, imploranti, mi chiedevano di essere ammazzate e piangevano pur di sfuggire a quell’inferno.
Io le osservavo, ma non provavo pietà, non potevo: ero una muhajirah». Il viaggio di Aicha nell’orrore e ritorno è stato raccolto in un libro da due giornalisti napoletani Simone Di Meo e Giuseppe Iannini.
«La soldatessa del Califfato» (Imprimatur editore) è stato un caso editoriale perché è riuscito a descrivere con stile efficace e realistico molti ambiti oscuri della Jihad attraverso l’allucinante parabola di Aicha, testimone diretta, scappata da Raqqa dopo aver saputo dell’ultimo feroce e sconvolgente atto di rappresaglia dei jihaidisti.
«Il marito le raccontò – spiega Di Meo – che avevano decapitato alcuni bambini cristiani rapiti perché i genitori non erano riusciti a riscattarli. Un orrore molto al di sopra della più solida sopportazione umana».
Sulla base del racconto di Aicha e dopo i fatti di Parigi, quali nuove valutazioni sulla guerra del terrore scatenata dall’Isis si sente di fare?
«Sono pessimista, abbiamo imboccato un tunnel senza via d’uscita. Sarà una lunghissima battaglia durante la quale l’Occidente potrà solo arginare questa marea di odio nei nostri confronti, dissipando comunque ingenti risorse.
C’è poi un aspetto inedito del nemico. La composizione dei jihaidisti oggi è trasversale: la protagonista del libro, Aicha è laureata; il capo dei sei tunisini fermati a Napoli di recente è un 35enne matematico, laureatosi alla Federico II, gli altri sono dei venditori ambulanti. Ciò dimostra la nuova stratificazione sociale dei nuovi combattenti e smitizza il luogo comune dei vu’ cumprà tranquilli e innocui.
Purtroppo dobbiamo considerare l’ipotesi che in ognuno di questi immigrati si possa svegliare un jihaidista».
Perché la propaganda di Al Baghdadi risulta così proficua?
«Fa presa sui giovani di alta scolarizzazione i quali sia nei loro paesi sia emigrati all'estero scoprono di non avere concrete prospettive di vita. Quindi, di fronte a messaggi di forte suggestione come quelli diffusi dall’Isis si rivelano persone fragili e facilmente condizionabili. C’è poi l’ossessivo richiamo alle leggi e ai valori millenaristici del Corano al quale nessun mussulmano si sente estraneo. Infine per la prima volta il Califfato offre ai combattenti non la vita eterna dopo il martirio, ma il benessere terreno purché siano disposti a lottare per una causa giusta e gloriosa».
E’ in atto, secondo lei, uno scontro tra civiltà o tra ideali religiosi?
«Emergono concause diverse. Ci sono la componente religiosa, quella professata dal preteso califfo Al-Baghdadi; le ragioni affaristiche sulle quali poggia la ricchezza dell’Isis; il forte desiderio di rivalsa nei confronti dell’Occidente. Il califfato si è dato una struttura statuale e mira a ricreare l’antica nazione di Maometto, che un tempo si estendeva fino in Sicilia. Oggi sono di nuovo alle nostre porte, in Libia».
L’appendice del libro è affidata a un manuale di propaganda islamica di 64 pagine. Era necessario pubblicarlo?
«Abbiamo ritenuto di sì. Per due ragioni. Volevamo dimostrare che il modello Isis è giunto anche in Italia. E’ scritto in un buon italiano, segno che i simpatizzanti del califfato sono persone di cultura superiore. Nel contempo ne confutiamo i contenuti attraverso il racconto drammatico di Aicha».