Con il giuramento prestato sulla Bibbia, la stessa utilizzata da Abramo Lincoln e Barack Obama, Donald Trump si è ufficialmente insediato alla Casa Bianca, come quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti d’America.
Un Trump "not politically correct"
Il suo discorso d’insediamento ha avuto toni in parte sorprendentemente “not politically correct” e in parte ribadenti il suo programma elettorale. Di fronte agli ex-Presidenti che lo hanno preceduto – di entrambi i partiti, democratico e repubblicano – Trump ha avuto il coraggio di affermare che, finalmente, con lui, il potere effettivo si trasferisce da Washington nelle mani del popolo e che il popolo torna a governare il paese.
Incurante delle facce stralunate dei vari Jimmy Carter, Bill Clinton, George Bush jr. e Barack Obama – tutti presenti, per l’occasione – il nuovo Presidente ha sostenuto che per troppo tempo “l’establishment” ha protetto se stesso e non i comuni cittadini. Come se lui stesso, figlio di un facoltoso investitore immobiliare e titolare di un patrimonio stimato in oltre 3 miliardi di dollari, comprendente grattacieli, casino, marchi, concessioni e quant’altro, non facesse parte dell’establishment della prima economia mondiale.
Il protezionismo economico di Trump
Dopo tali premesse, Trump ha ribadito il concetto che avrebbe lavorato esclusivamente a favore del comune cittadino americano, sinora oggetto di una vera e propria “carneficina” e vittima della criminalità: famiglie in difficoltà, industrie abbandonate e scuole senza soldi.
La sua ricetta operativa è quella sbandierata in campagna elettorale che, a questo punto, assume i crismi di un vero e proprio programma di governo: protezionismo economico e lotta all’immigrazione.
Le politiche economiche dei suoi predecessori – ha detto Trump – hanno arricchito l’industria straniera a scapito di quella statunitense e i confini nazionali, invasi da legioni di migranti stranieri, non sono stati difesi.
Il risultato – secondo il neo-Presidente – è stata la distruzione delle aziende, dei prodotti “made in USA” e del lavoro americano. Per porre rimedio, ci sarebbero due semplici regole: comprare americano e assumere americano.
Purtroppo per i cittadini statunitensi, le teorie economiche di Trump confliggono con i dati di fatto.
Sotto la presidenza Obama, gli USA sono usciti dalla crisi economica mondiale del 2008 molto meglio di quasi tutte le economie industrializzate del pianeta: i posti di lavoro sono aumentati di 15 milioni e la disoccupazione è scesa dal 10 al 5%, mentre proprio gli accordi commerciali stipulati dal suo predecessore – e che Trump ha già dichiarato di denunciare - avrebbero creato mercati per la produzione USA la quale ora difficilmente potrebbe avere sbocco nel mercato interno.
La denuncia di tali accordi, al contrario, aprirebbe i mercati dei paesi del Pacifico proprio ai prodotti cinesi, tanto avversati da Trump. Il suo protezionismo, tuttavia, andrà a scapito della produzione europea, se è vero che nel 2015 l’export della UE è superiore del 50% rispetto a quello degli USA in Europa.
Trump meno chiaro in politica estera
Meno chiare le linee di politica estera del neo-presidente: le alleanze militari in essere (leggi: NATO), saranno rinforzate ma solo in caso di interesse diretto degli Stati Uniti; altre ne saranno concluse (leggi: con la Russia) “per unire il mondo civilizzato contro il terrorismo degli estremisti islamici, che cancelleremo dalla faccia della Terra”.
Dall'incrocio di tali affermazioni si legge, tra le righe, che, per il futuro, sarà ricomposto ogni attrito tra NATO e Russia (crisi ucraina, sanzioni economiche), perché gli USA non ne hanno alcun interesse a proseguire in tal senso. Gli Stati Uniti, inoltre, si serviranno della Russia per combattere il terrorismo islamico non solo nell'area Iraq-Siria, ma anche in Nord Africa. Un orizzonte, insomma, dove l'Unione Europea e la stessa UK della Brexit ha poco spazio politico.