Il viaggio di Donald Trump a Ryad, dove è stato ricevuto da tutti i leader del Consiglio di cooperazione del Golfo Persico, ha avuto come conseguenza la rottura delle relazioni diplomatiche tra i paesi aderenti a tale organizzazione (Arabia saudita, EAU e Bahrein) e il Qatar, un altro emirato del golfo, dove si applica la Shariah e gli immigrati asiatici sono l’87% della popolazione residente. I paesi musulmani sunniti del Golfo – a cui si è aggiunto l’Egitto – hanno inoltre sospeso i collegamenti aerei con il minuscolo Stato e lo hanno escluso dalla loro coalizione a guida saudita.
Il “casus belli” sarebbe stato il presunto sostegno e i finanziamenti, da parte di Doha (città capitale dell’emirato), ai terroristi dell’ISIS e, per quanto riguarda l’Egitto, alla setta integralista dei Fratelli musulmani. Al di là delle enunciazioni di facciata, il vero motivo dell'ostracismo sarebbero i legami stretti dal Qatar con l’Iran sciita. Lo stesso Trump, la settimana scorsa, infatti, dopo aver ribadito l’esigenza di una lotta sempre più serrata contro il terrorismo, aveva individuato in Teheran il nemico principale della lotta al terrorismo.
Il ruolo del Qatar nella finanza mondiale e nello scacchiere medio-orientale
Il distratto lettore del “Bel Paese” conosce il Qatar solo per la scritta Qatar Airways sulle magliette del Paris St.
Germain, dove giocano attualmente Ibrahimovic, Cavani e Verratti, già idoli della Serie A o perché nel 2022 dovrebbe ospitare i Campionati del Mondo di calcio. In realtà, il piccolo Stato del golfo è uno dei maggiori investitori finanziari delle borse europee, possedendo – tra l’altro – il 17% di Volkswagen, il 20% della British Airways e di Iberia, il 13% di Tiffany, il 9,75% della compagnia petrolifera di Stato della Russia e altre quote azionarie della Shell, di Credit Suisse, di Deutsche Bank, di Barclays e dell’aeroporto londinese di Heathrow.
Di fronte a tale potenza finanziaria, il presunto appoggio al terrorismo e all’islamismo sciita sembra passare in secondo piano. Subito, infatti, si è alzata una voce fuori dal coro, nel mondo islamico sunnita e, cioè, quella del presidente turco Recep Erdogan, i confessione sunnita, che si è detto contrario alle sanzioni contro il piccolo Stato del Golfo e ha dato la disponibilità a svolgere una mediazione diplomatica.
Erdogan, già sponsor dei Fratelli musulmani egiziani e dei palestinesi di Hamas, era stato vittima di attentati terroristici che hanno provocato 39 morti e oltre sessanta feriti a Istanbul, nella notte di capodanno; 42 morti , un anno fa, all’aeroporto della stessa città e 51 morti nel corso di un matrimonio a Gaziantep. Parrebbe strano, perciò, che si dica contrario alle sanzioni contro uno Stato “terrorista” e alleato dell’Iran sciita.
Erdogan sempre più vicino a Russia e Iran e lontano da Washington
Pur presiedendo uno Stato facente parte della NATO, tuttavia, già in passato Erdogan aveva avuto contrasti con gli USA, accusandoli di aver dato rifugio al suo oppositore Fethullah Gulen (e ventilando un presunto appoggio degli Stati Uniti al golpe in Turchia dell’estate scorsa) e aveva stretto accordi economici con Putin.
Il suo comportamento più recente nella crisi siriana, inoltre, lo vede molto meno contrapposto ad Assad, a sua volta sponsorizzato da Mosca e da Teheran.
Da questo punto di vista, la crisi con il Qatar sembra il tassello per una possibile ricomposizione delle alleanze nello scacchiere medio orientale, dopo le iniziative “muscolari” di Trump, concretizzatisi con il bombardamento della base siriana di al-Shayrat, il mese scorso, e le sue esternazioni di fronte alla platea degli sceicchi a Ryad.
Al fronte sciita sponsorizzato dalla Russia di Putin e composto da Iran, governo siriano di Assad e gli hezbollah libanesi, si aggiungono Ankara e Doha, pur essendo di confessione sunnita. La Turchia, in futuro, potrà egregiamente rappresentare il trait d’union geografico tra Teheran, la Siria e il Libano, oggi ostruito dalla presenza dello Stato islamico dell'ISIS.
Per questo Teheran ha sinora appoggiato la minoranza curda, che combatte Daesh in Iraq e in Siria.
Tale "rovesciamento di alleanze" fa presagire l’imminente abbandono, da parte di Teheran, dell’appoggio sinora accordato alla lotta dei curdi contro l’ISIS e per la loro indipendenza politica. I curdi, d'altronde, sono una minoranza linguistica anche all’interno dell’Iran e la costituzione di un loro Stato sovrano – sia pure al di fuori dei propri confini - è difficile da trangugiare per Teheran e Assad, oltre che da parte di Erdogan.
Con buona pace di Trump e di Barack Obama.