Si pensa già al dopo Fico. La prospettiva è tutt’altro che peregrina. Non pare possa avere sbocchi di riuscita l’incarico che il presidente Mattarella ha conferito al presidente della Camera probabilmente per puro, quanto lodevole, scrupolo istituzionale applicato in perfetta simmetria con il precedente assegnato al presidente del Senato, Casellati, e conclusosi con un nulla di fatto. Simmetrico anche l’”engagement” che descrive i limiti del mandato circoscritto ad un’ipotesi di intesa Cinquestelle – Pd, pur dopo i veleni che, storicamente, ne hanno accompagnato le relazioni.
Troppi contrasti per un'intesa M5S - Pd?
Ma non è solo questo il motivo della divergenza tra le due forze politiche. La Waterloo del Pd alle elezioni del 4 marzo, ribadita dalla consultazione regionale in Molise, e le aspre lotte interne che, da tempo, ne hanno compromesso la credibilità negano al partito del reggente Martina ogni possibilità di garantire quei numeri che sarebbero indispensabili ad un governo chiamato ad operare “a pieno titolo” (secondo l’indicazione del capo dello Stato) per fronteggiare le emergenze che il Paese ha di fronte a sé.
La posizione di Renzi rivolta a collocare il suo partito tra i banchi della minoranza risponde, da una parte, alla consapevolezza democratica di una dolorosa sconfitta elettorale, e, dall’altra, ad una strategia di rigenerazione del suo stesso partito e di recupero, dalla opposizione, della unità del centrosinistra.
L’idea renziana è, piaccia o no, maggioritaria all’interno del Pd e non appare condizionabile dai “ministerialisti” alla Franceschini e alla Orlando, che, ritrovatisi con Emiliano, hanno dimostrato e continuano a dimostrare di non avere la forza di mettere in crisi la fermezza dell’ex leader. Né sembra accreditabile l’idea, assunta soprattutto da un’affollata schiera giornalistica, secondo cui il travaso degli elettori dal Pd al Movimento 5 Stelle ne avvicinerebbe (finanche) le identità tanto da renderne contigue le posizioni ed accomunarne i destini.
No. L’impressione più diffusa – e non è solo un’impressione – è che gli ex elettori del Pd, partito che evidentemente gode sempre meno della fidelizzazione del suo mondo, si siano sentiti traditi dai loro tradizionali rappresentanti. L’inganno che ne hanno colto li ha indotti, in massa, ad affidare il proprio arrabbiato consenso al populismo dei Cinquestelle, soprattutto al sud, e a quello dei Leghisti, soprattutto al nord e, persino, nelle roccaforti “rosse” d’un tempo che sembravano intramontabili.
Altro capitolo dissonante, se non proprio stridente, riguarda i programmi, nonostante il lavoro conciliativo del professor Della Cananea e nonostante i tre punti (reddito di inclusione, famiglia e lavoro) segnalati da Martina per l’avvio di un dialogo con i Cinquestelle, dialogo peraltro inibito da un formale “no” della direzione del Pd. Europa, patto di stabilità, pressione fiscale, banche, legge Fornero, Patto Atlantico, pur in presenza delle giravolte grilline, rappresentano, indubbiamente, motivi d’una discordanza programmatica, oltreché d’una incompatibilità metodologica. Tali contrasti esploderebbero, inevitabilmente, sin dalle prime battute di una comune esperienza di governo. A parte il fatto che il Pd, che non ha avuto accesso agli uffici di presidenza di Camera e Senato e alle presidenze delle commissioni speciali, ne trarrebbe un ruolo di “ruota di scorta”, assai poco digeribile per i suoi settori più rappresentativi. Riuscirà Fico a trovare una via d’uscita?