Una interessante recensione pubblicata su The New England Journal of Medicine (NEJM), prima firma J. M. Drazen, pone l’attenzione sul problema dei costi della fase preclinica di sviluppo di nuovi farmaci e come aggirarlo per poter arrivare allo sviluppo di nuovi medicinali con minori rischi/costi industriali. E, soprattutto, favorire la ricerca anche su quelle patologie dove è meno conveniente investire per le aziende farmaceutiche, come le malattie rare.

"Valle della Morte": i tanti farmaci che non arrivano a registrazione

A guardare indietro e ai passi che la medicina ha compiuto negli ultimi trent’anni, sia sulla conoscenza dei meccanismi biologici che nello sviluppo di nuovi farmaci, sembra veramente clamoroso.

Ma non abbastanza se ancora oggi ci sono molte patologie che non hanno alcun trattamento farmacologico efficace o non sono controllate attraverso la cronicizzazione, non riuscendo ad eradicarle o curarle definitivamente. Ogni nuovo farmaco, messo a punto dall’attività di ricerca nei laboratori pubblici e privati, ha una chance su 10 mila di arrivare a registrazione. Esiste quindi un enorme gap nella cosiddetta fase “from bench to bedside” con molti potenziali farmaci che non proseguono o interrompono lo sviluppo industriale nelle prime fasi: da qui la definizione di “Valle della Morte”.

La strada della "venture philantropy"

I motivi sono molteplici. La difficoltà di prevedere già in fase preclinica eventuali tossicità o inefficacia clinica.

Le strategie aziendali, che possono cambiare nel lungo periodo che intercorre dalla scoperta alla commercializzazione di un nuovo farmaco. I costi davvero elevati dello sviluppo: circa un miliardo di dollari per ogni nuovo farmaco (stime statunitensi). Per questo è difficile “giustificare” un investimento per lo sviluppo di nuovi farmaci nelle malattie rare in quanto i fondi necessari sarebbero quasi impossibili da recuperare.

In questo scenario si fa strada un ripensamento degli investimenti pubblici destinati alla ricerca, agevolando approcci più filantropici. La cosiddetta “venture philantropy”. Un esempio di questo tipo si è avuto in Italia con lo sviluppo di Strimvelis, la prima terapia genica per una grave malattia rara (ADA-SCID, deficit di adenosina deaminasi).

L’articolo pubblicato su NEJM descrive alcuni esempi di “venture philantropy”.

Esempi di successo e di speranza: il caso Strimvelis

Il caso Strimvelis non è l’unico esempio positivo di un approccio filantropico. Ovvero un rapporto di collaborazione tra organizzazioni profit e no-profit, applicato allo sviluppo di nuovi farmaci, soprattutto dove è meno conveniente per una impresa (azienda farmaceutica) investire. Nella fibrosi cistica, un’operazione di venture philantropy ha portato allo sviluppo di Ivacaftor (Kalydeco). Tutto inizia nel 1989, con la scoperta del gene che causa la fibrosi cistica e della proteina CFTR (cystic fibrosis transmembrane conductance regulator). La comunità scientifica comincia ad interessarsi ad una patologia che interessa circa 70 mila pazienti in tutto il mondo.

Grazie ad un network tra associazioni, fondi pubblici e aziende farmaceutiche (Aurora Biosciences; Vertex Pharmaceuticals) si arriva allo sviluppo di Ivacaftor, un modulatore di CFTR approvato dalla FDA nel 2011. Seguito, nel 2015, dall’approvazione della combinazione tra ivacaftor and lumacaftor (Orkambi), molto più efficiente nel controllo della proteina CFTR.

Nove nuovi farmaci per il mieloma multiplo

Un'operazione simile è stata fatta per il mieloma multiplo, un tumore ematologico che fino al 2000 lasciava un'aspettativa di vita non superiore a 3,5 anni. Trattandosi di una patologia non molto comune, con 25 mila nuovi casi l’anno negli Stati Uniti, risultava poco appetibile per le aziende fare investimenti per sviluppare nuovi farmaci.

Negli ultimi 15 anni, grazie ad una operazione di venture philantropy, sono arrivati a registrazione ben nove nuovi farmaci, dando una prospettiva migliore ai pazienti.

Gli studi sul diabete tipo 1

Un altro esempio di investimenti filantropici è stato fatto sul diabete tipo 1, una patologia autoimmune che porta alla distruzione delle cellule pancreatiche, che secernano insulina (cellule beta). L’incidenza di questa malattia è del 0,4% sia negli Stati Uniti che in Europa. Grazie a iniziative tra associazioni, enti no-profit e aziende, sono stati studiati combinazioni di farmaci, come rapamicina (sirolimus) ed interleuchina-2. Le ricerche stanno andando avanti. Per tutti, rimane il problema di come ridurre il gap tra “bancone e letto del paziente”, aumentando le chance di successo dei farmcai candidati - scelti più oculatamente - fino alla registrazione. Sperando che questo porti ad una riduzione dei costi, con maggiori benefici per tutti.