Due ricercatori delle Università di Helsinki e Nairobi hanno identificato il virus Ebola Bombali in un pipistrello dalla coda libera in Angola (Mops condylurus della famiglia dei Molossidi, diffuso nell'Africa subsahariana), catturato nei pressi delle colline di Taita, nel sud-est del Kenya. In questi territori finora non era stato segnalato alcun caso relativo alla malattia nella fauna selvatica locale. Soprattutto, in quest'area non sono mai stati riportati casi di Ebola nemmeno tra gli esseri umani.

Questa scoperta andrebbe a confermare l'ipotesi secondo cui i pipistrelli potrebbero essere dei portatori sani di questi virus, un aspetto che finora non aveva trovato ulteriori riscontri.

Il virus dell'epidemia nel Congo

La famiglia dei virus Filoviridae è suddivisa in 3 distinti generi: Cuevavirus, Marburgvirus ed Ebolavirus. L'agente patogeno dell'ebola appartiene all'ultimo di questi, di cui sono descritti ben 6 differenti virus. Di questi, quattro (tra cui vi è anche l'Ebola Zaire) sono noti per causare malattie nell'uomo e sono quelli responsabili della devastante epidemia che dal 2013 al 2016 ha interessato le popolazioni dell'Africa occidentale, e continua ancora adesso a colpire le popolazioni della Repubblica Democratica del Congo.

Sebbene ancora oggi si ignorino i serbatoi naturali di questi agenti patogeni, molte evidenze fanno supporre che alcune specie di pipistrelli, in particolare quelli della frutta, potrebbero rientrare in questa categoria.

L'ultimo virus Ebola identificato (agosto 2018) è il Bombali, presente in campioni biologici di pipistrelli insettivori Mops condylurus e Chaerephon pumilus (famiglia Molossidae) della Sierra Leone.

Ora, nei pressi delle colline di Taita, nel Kenya sudorientale, ad una distanza superiore a 5.500 km dalla Sierra Leone, è stato catturato un pipistrello dalla coda libera dell'Angola (M.

condylurus), portatore del virus. Una volta analizzati i campioni di sangue (RNA e anticorpi specifici) prelevati da soggetti con febbre elevata che si erano rivolti agli ospedali della zona, nessuno è risultato infettato dal virus, confermando che quest'agente patogeno non va ad infettare l'uomo.

Tuttavia, preoccupa che questo virus abbia lo stesso tipo di recettore NPCI (una glicoproteina) presente in altri filovirus.

E sono proprio questi recettori a favorire la penetrazione del virus nelle cellule umane.

Questa ricerca, pubblicata su "Emerging Infectious Diseases 2019", primo autore Kristian M. Forbes, confermerebbe che questo tipo di pipistrello è un ospite del virus Ebola. Anche se in questo caso non è stato rilevato un passaggio di infezione dai chirotteri all'uomo, nessuno può escludere che questo sia potuto succedere e che potrà accadere. Inoltre, sorprende che dei virus isolati pochi mesi fa da alcuni volatili nella Sierra Leone, siano stati individuati anche in altri pipistrelli, ma distanti migliaia di km tra loro.

Ebola

Scoperto nel lontano 1976, durante un'epidemia nella Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire) nei pressi della valle del fiume Ebola (da cui il nome), quando colpisce l'uomo (e altri primati) provoca una grave febbre emorragica, spesso fatale, con tassi di mortalità che vanno dal 50 al 90% soprattutto nelle popolazioni dove è scarsa l'assistenza sanitaria.

Per anni, il virus Ebola è stato associato alle peggiori pestilenze che potessero colpire l'umanità, ma finché è rimasto confinato in territori lontani dai Paesi Occidentali sono stati effettuati pochi investimenti nella ricerca per poterlo annientare.

In Italia, ricordiamo tutti il caso dell'infermiere di Emergency infettato proprio perché lavorava nei territori colpiti dall'epidemia: arrivato a maggio 2015 all'aeroporto di Pratica di Mare a bordo di un C-13 dell’Aeronautica Militare, fu portato all'Ospedale Spallanzani di Roma scortato da 100 uomini, con un livello di protezione mai visto in precedenza nel nostro Paese.

In questi anni la ricerca ha compiuto molti passi in avanti, soprattutto nello sviluppo di farmaci e vaccini anti-Ebola.

L'Oms pensava già al "paziente zero", ovvero ad un altro caso di pandemia da archiviare come il vaiolo. Purtroppo non aveva considerato un aspetto "molto umano", le abitudini sessuali di questi popoli che, sebbene infettati, continuano ad avere rapporti senza alcuna protezione, diffondendo la malattia.

Uno studio pubblicato in questi giorni su "Journal of Theoretical Biology" da due ricercatori giapponesi, Hyojung Lee e Hiroshi Nishiura, riporta le probabilità di contagio nelle popolazioni dopo l'infezione, conseguente proprio ai rapporti sessuali. Analizzando i dati sui contagi in Guinea, Liberia e Sierra Leone, gli studiosi hanno elaborato un modello che stima il periodo dall'ultimo caso di infezione a quanto si possa considerare scampato il pericolo di contrarre la malattia dal virus ancora in circolazione: circa 42 giorni.

Queste informazioni possono aiutare gli operatori a fornire indicazioni più precise alle popolazioni interessate sui rischi a cui vanno incontro.