Se n’è andato Muhammad Ali, all’età di 74 anni. Era l’alba, in Italia, e notte all’ospedale di Phoenix, Arizona, quando il più grande sportivo del secolo passato si è spento per sempre. Muhammad Ali era stato ricoverato in via precauzionale, per una serie di malanni non gravi, ma che su un fisico debilitato e ormai fragile come il suo avevano comportato un quadro generale che aveva indotto i medici alla massima prudenza.

Un uomo coraggioso, un pugile eccezionale

Cassius Clay era Muhammad Ali dal 1964 e dal 1981 non era più un pugile professionista.

Da più di trent’anni era affetto dal morbo di Parkinson, che lo rendeva sempre più instabile e sofferente. Una vera e propria perversione del destino, quella capitata a Muhammad Ali, che aveva deciso di colpire proprio nel campo delle movenze fisiche, di quella velocità di passo e braccia che hanno fatto di lui uno dei più grandi pugili della storia, dal punto di vista tecnico. Se poi si amplia il campo e si considera la personalità di Muhammad Ali, le sue lotte per i diritti civili e la sua capacità di diventare il simbolo di tutti gli afroamericani, ecco che risulta chiaro il motivo per cui, se si dovesse scegliere il nome del più importante sportivo del secolo passato, quello da dire sarebbe senz’altro il suo.

Si può ricordare Muhammad Ali come l’uomo coraggioso che non teme di mostrare in pubblico il proprio stato mentre accende la torcia olimpica dei Giochi di Atlanta, nel 1996, e si farebbe bene, perché uno come lui e solo uno come lui poteva avere il fegato di farsi trovare lì e disputare un altro match storico, combattendo contro il tremore delle sue stesse braccia.

Per uno come lui, però, vale la pena snocciolare un ricordo ancora migliore.

La leggenda di Muhammad Ali

È il 25 maggio del 1965, siamo a Lewiston, Maine. Sul ring c’è in palio la cintura di campione del mondo dei pesi massimi. Entra lo sfidante, Sonny Liston, e il pubblico sembra tutto per lui. Poi è il turno del campione, Cassius Clay, che da qualche tempo si è convertito all’Islam e si fa chiamare Muhammad Alì.

Gli spettatori lo fischiano, ma lui non sembra sentirli. Tiene gli occhi fissi su Sonny Liston e, al primo gong, gli va dritto incontro cercando di colpirlo di destro, poi ci prova di sinistro, poi inizia a danzargli attorno. Tiene la guardia bassa, schivando i pugni del suo avversario che, spazientito, dopo un minuto circa del primo round si fa sotto cercando di accorciare la distanza. Una frazione di secondo e Sonny Liston è a terra. Un destro di Muhammad Alì gli si è stampato sulla parte sinistra del volto, forse ci è andata di mezzo anche una tempia, fatto sta che lo sfidante finisce supino.

Sopra di lui, Muhammad Alì gli grida di alzarsi, convinto di non averlo colpito in modo così decisivo.

Proprio in quel momento un reporter scatta una delle fotografie più famose della storia dello sport. Sonny si gira, riesce a mettersi in ginocchio, punta il piede sinistro, prova ad alzarsi, ma non ce la fa e finisce ancora giù, pancia all’aria. A quel punto Muhammad Alì capisce che quel colpo, che molti ancora oggi chiamano il pugno fantasma, non è stato affatto leggero. Inizia a saltare per tutto il ring, sicuro di avere vinto. E ha ragione, perché quando, alla fine, Sonny Liston riesce a rialzarsi, ha l’aria di chi si sta chiedendo che cosa, di preciso, ci faccia lì e chi è il tizio che si batte i guantoni uno contro l’altro, con aria minacciosa, appena dietro l’arbitro. Quando il direttore di gara fa cenno che si può proseguire, quel tizio gli si avventa contro con la forza di un leone e bisogna interrompere subito il match, prima che lo sfidante finisca massacrato.

Il tizio è Muhammad Alì, da molti considerato il più grande eroe sportivo di ogni tempo, nato il 17 gennaio 1942 a Louisville, Kentucky, morto a Phoenix, Arizona, nella notte fra il 3 e il 4 giugno del 2016. Un quintale di tecnica, agilità e ferocia distribuiti su 190cm di altezza. E una leggendache non si può misurare.