La sorte del volo MH370 della Malaysian Airlines, scomparso nella notte tra venerdì e sabato con 239 persone a bordo, è ancora avvolta nel mistero. Mentre è iniziato il settimo giorno di ricerche, non esiste ancora un'ipotesi predominante su quello che è senza dubbio il disastro aereo più singolare degli ultimi anni.


Ieri per qualche ora è sembrato che il mare avesse finalmente restituito elementi della carcassa, salvo poi scoprire che era tutto un malinteso. La notizia era rimbalzata dal sito di un ente governativo cinese, l'Amministrazione per la Scienza e la Tecnologia: tre oggetti di grandi dimensioni fotografati dai satelliti in un'area di "impatto marino" non distante dalla rotta dell'MH370. La smentita è arrivata direttamente per bocca del ministro dei Trasporti malese: "Le foto in questione non ritraggono l'aereo e sono state pubblicate per errore". Oggi un nuovo annuncio, questa volta da parte di sismologi cinesi, che la notte della sparizione avrebbero registrato movimenti nel Mar Cinese Meridionale.


Quel che è certo è che le ricerche finora non hanno prodotto risultati: mezzi appartenenti a dodici paesi diversi stanno scandagliando la rotta del volo e non solo, nell'ipotesi - sempre più remota - che il pilota sia stato costretto da eventuali dirottatori ad effettuare variazioni sul tracciato stabilito. Un'altra versione è che l'MH370 sia fuoriuscito dalla rotta, deviando verso ovest, sull'Oceano Indiano, forse per tentare un atterraggio di emergenza dopo una serie di guasti alla strumentazione di bordo. La avvalorano le testimonianze di esperti americani, citati dal Wall Street Journal, secondo cui il Boeing avrebbe volato ancora quattro ore dopo l'ultimo contatto (e in effetti aveva l'autonomia di carburante per farlo).

Secondo la rete ABC - la fonte sarebbero due ufficiali dell'esercito USA - il trasponder, che serve a segnalare a terra l'altitudine e la posizione degli aerei, avrebbe continuato a trasmettere fino all'1.21 locale, quindi circa 15 minuti dopo l'orario di sparizione "ufficiale".

Su come funzionino i sistemi di monitoraggio degli aerei in volo si fa un gran parlare. In estrema sintesi: le strumentazioni di bordo sono molte e sofisticate; un blackout contemporaneo di tutte è improbabile e non è mai accaduto; se così fosse sarebbe di fatto impossibile rintracciare i resti del velivolo.


Accanto alla cronaca della vicenda però ci sono elementi di sfondo che vale la pena considerare, anche perché aiutano a contestualizzare le schermaglie intercorse tra Pechino e Kuala Lumpur. Tre giorni fa la Cina ha accusato le autorità malesi di filtrare le informazioni in modo caotico, attacco che ha fatto breccia al punto da creare un "fronte interno" nel paese, visto che sono in molti oramai a criticare apertamente la gestione dell'emergenza.

Ma cosa c'entra la Cina?

Anzitutto gran parte delle persone a bordo era di nazionalità cinese; in secondo luogo la Cina in Asia c'entra sempre, per motivi che hanno a che fare con il suo potere economico, e la Malesia è da tempo uno dei migliori partner commerciali della Cina.

Inoltre a Pechino interessano soprattutto le risorse energetiche di Kuala Lumpur, ed intende sfruttarle al meglio: recentemente un'azienda di nome State Grid Corporation of China (SGCC), affiliata al governo cinese, ha annunciato di voler investire 11 miliardi di dollari nel cosiddetto "corridoio per l'energia rinnovabile del Sarawak", una regione del Borneo malese ricca di risorse energetiche. Ciò che più conta però è che la penetrazione economica cinese avviene attraverso aziende di stato, che per il regime hanno una funzione simile ai cavalli di Troia: una volta dentro il paese "ospitante" si esercita un controllo diretto su settori via via più crescenti dell'economia. La preoccupazione principale della Malesia è in altre parole l'imperialismo cinese, e questo spiegherebbe perché tra i due paesi esiste un'amicizia solo di facciata, che nasconde frequenti screzi verbali.