Fino a pochi anni fa, più che di immigrazione vera e propria (intesa come mobilitazione etnica dal sud-est), in Italia si parlava di leggi sull’immigrazione. Il problema legato agli immigrati si affaccia da noi ad inizio anni ’90, conseguenza della dissoluzione della Jugoslavia e del regime albanese. Agosto 1991: migliaia di albanesi, prostrati dalla crisi economica interna, approdarono in Puglia. Intanto arrivavano anche i primi somali ed eritrei.
In quel clima l’Italia aveva già uno strumento legislativo per regolamentare il fenomeno: la legge del 1990 (governo Andreotti VI) a firma dell’allora vicepresidente del Consiglio Claudio Martelli.
Il suo testo prevedeva l‘espulsione dei clandestini entro quindici giorni, e stabiliva che la permanenza di un immigrato regolare fosse certificata da un permesso di soggiorno. Per averlo bisognava possedere un lavoro retribuito.
Nel 1998 la legislazione in materia venne riveduta dal ministro dell’Interno Giorgio Napolitano col ministro della Solidarietà Sociale Livia Turco (governo Prodi I). Tratto saliente della Turco-Napolitano era la maggiore attenzione all’integrazione sociale degli immigrati regolari: introduceva il ricongiungimento familiare e riconosceva il permesso di soggiorno per questa ragione. Venivano poi introdotte norme anti-discriminazione. Invece gli immigrati pericolosi erano destinati comunque all’espulsione coattiva.
Ma non sempre immediata dopo la canonica scadenza: secondo i casi si poteva prevedere anche un “purgatorio” più lungo nei Centri di permanenza temporanea, creati appositamente.
L’ultimo ritocco normativo riguardo all’immigrazione venne dato nel 2002 (governo Berlusconi II), grazie al vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini e al ministro delle Riforme Umberto Bossi.
L’elemento veramente nuovo della Bossi-Fini è il deciso rafforzamento del contrasto preventivo dei flussi di immigrazione: la legge potenzia il concetto di respingimento tout court e prevede l’impiego più massiccio di unità di Marina per pattugliare le acque al largo della Sicilia (poiché nel frattempo la “porta dell’Italia” si è spostata dalle coste della Puglia alle isole Pelagie e al sud della Sicilia).
Parallelamente, divenivano più rigide le misure per ottenere la regolarizzazione sul suolo italiano: in linea di massima, a valere era il principio pregiudiziale che l’immigrato volesse delinquere. Dal 2011 l’emergenza immigrati è tornata ad acuirsi per le conseguenze delle primavere arabe. Fronti caldi di questa fase sono la Libia, caduta in un dissesto politico irreversibile dopo l’era Gheddafi, l’Egitto in fiamme del dopo-Mubarak, e la Siria di Assad. E poi Afghanistan e Pakistan sotto la minaccia talebana; la Nigeria di Boko Haram; il Sudan dei moti anti-presidenziali; il Mali sprofondato nella guerra civile dal 2012; Gambia e Senegal, che calpestano i diritti umani quotidianamente.
Nel 2008 i Cpt mutarono nome in Centri di identificazione ed espulsione.
Qual è oggi la loro mappa? All’entrata in vigore della Turco-Napolitano erano 13. Nel 2008, con il cambio di denominazione, si ebbe anche uno snellimento robusto del loro novero: rimasero quelli di Roma, Caltanissetta, Bari, Torino e Trapani. Agrigento e Lecce divennero Centri di Prima Accoglienza e Soccorso; Brindisi, Crotone e Gradisca d’Isonzo, invece, Centri per l’Accoglienza dei richiedenti asilo. Cara e Cda sarebbero punti di transito, ma di fatto non si discostano dai Cie, al contrario degli hotspot, centri di identificazione rapida (il maggiore è a Lampedusa). Essi devono evitare la sovrappopolazione dei Cie (carceri a tutti gli effetti, ormai), selezionando subito quali migranti possono continuare il percorso in Europa e quali devono essere rimpatriati immediatamente.