Una nota del Quirinale del 26 settembre del 1986 recitava: «Sprezzante dei pericoli cui si esponeva nell’operare contro la feroce organizzazione mafiosa, svolgeva in prima persona e con spirito d’iniziativa non comune, un intenso e complesso lavoro investigativo che portava all’identificazione e all’arresto di numerosi fuorilegge. Sorpreso in un agguato, veniva mortalmente colpito da due assassini, decedendo all’istante. Testimonianza di attaccamento al dovere spinto fino all’estremo sacrificio della vita. Palermo, 28 luglio 1985». Con quella nota, l’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, conferì la Medaglia d’oro al valor civile al commissario Beppe Montana.

Non sono in molti a conoscere la storia di questo poliziotto eroe. O meglio, la sua storia merita di essere conosciuta da molta più gente. Da quanta più gente possibile. Soprattutto oggi.

La storia di Beppe Montana

Nacque ad Agrigento, nel 1951, ma crebbe a Catania, dove si laureò in Giurisprudenza e dove vinse il concorso per entrare nella Polizia di Stato. Poco dopo fu mandato a Palermo a dirigere la neonata sezione catturandi della squadra mobile. Una nuova struttura impegnata nella ricerca dei numerosissimi latitanti che in quegli anni spadroneggiavano in Sicilia. Un incarico che il commissario svolse con passione abnegante, tanto da dedicarsi alle indagini anche durante il suo tempo libero.

E i risultati non tardarono ad arrivare. Scoprì l’arsenale della famiglia Greco, arrestò il boss attivo nel contrabbando di sigarette e nel traffico droga Tommaso Spadaro, collaborò alla maxi operazione “San Michele” del pool antimafia guidato da Chinnici che portò all’esecuzione di 475 mandati di cattura. E con quel pool, di cui facevano parte anche Falcone, Borsellino e il suo amico Cassarà, avrebbe continuato a lavorare, senza mai risparmiarsi fino alla fine.

Nonostante gli attimi terribili. Nonostante lo scoramento. Come quando venne fatto saltare in aria il giudice Rocco Chinnici.

"A Palermo siamo poco più d’una decina a costituire un pericolo per la mafia"

Distrutto dal dolore, il commissario dichiarò: «a Palermo siamo poco più d’una decina a costituire un reale pericolo per la mafia.

E i loro killer ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili, purtroppo. E se i mafiosi decidono di ammazzarci possono farlo senza difficoltà».Conosceva bene la ferocia di cosa nostra. L’aveva toccata con mano. Ma andò avanti. Senza tentennamenti. Senza paura. E con il vice questore Ninni Cassarà riuscì a sbattere in gabbia numerosi mafiosi, tra cui gli assassini di Dalla Chiesa e Chinnici. Insieme scoprirono depositi di armi e raffinerie di droga, condussero le indagini sul Palermo Calcio e, sempre insieme scrissero il “rapporto dei 162”, una mappa con l’organigramma dei nuovi equilibri e dei nuovi boss nella Palermo dell’ultima guerra di mafia.Il 25 luglio del 1985, Montana, in un blitz a Bonfornello, riuscì a catturare otto uomini di Michele Greco.

Tre giorni dopo, a Porticello, venne freddato a colpi di pistola. I killer spararono con una 357 Magnum e una calibro 38. Morì all’istante, tra le braccia della sua fidanzata. Aveva appena 34 anni. Solo da tre era diventato commissario. Per l’omicidio di Montana verranno condannati all’ergastolo Michele Greco, Totò Riina, i fratelli Madonia, Bernardo Provenzano, Raffaele e Domenico Ganci, Salvatore Buscemi, Bernardo Brusca e i fratelli Galatolo.Per l’omicidio del commissario Montana in molto non troveranno pace. Soprattutto i siciliani e gli italiani per bene, che a lui devono molto.