Paolo Borsellino è stato un simbolo della lotta alla criminalità organizzata, a "cosa nostra": era il 19 luglio del 1992 quando venne assassinato insieme a cinque agenti della sua scorta, nella strage di Via D'Amelio dove abitava la madre e dove ad aspettare il giudice vi era una Fiat 126 piena di tritolo.

Una vita al servizio della legalità passata a combattere la criminalità organizzata siciliana, insieme all'amico e collega Giovanni Falcone (morto anche lui qualche mese prima, il 23 maggio '92 nella strage di Capaci).

Siamo nei primi anni Ottanta, la stagione sanguinosa delle bombe, della scalata al potere di cosa nostra da parte dei corleonesi, dell'intreccio Stato - mafia.

In questo contesto emerge il grande senso di responsabilità che contraddistingue l'attività di alcuni uomini esempio di lealtà, che non si fermeranno fino alla loro uccisione.

Tra i successi più importanti vi è la nascita del reato di associazione di tipo mafioso, introdotto dalla legge Rognoni - La Torre e presente all'articolo 416 bis codice penale che disciplina come: "L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali".

È stato il primo grande traguardo legislativo raggiunto nel 1982, dal quale è stato poi possibile imbastire qualche anno dopo il maxi-processo, 8000 pagine di lavoro, che portarono nel 1987 a 342 condanne, di cui 19 ergastoli tra cui a Riina e Provenzano, all'epoca ancora latitanti.

Ma sono anni contraddistinti da numerose zone d'ombra che a distanza di molti anni cercano ancora una risposta.

A partire dalla trattativa Stato - Mafia, arrivando ai giorni nostri. Come ha rivelato qualche giorno fa l' Espresso, Matteo Tutino, primario dell'ospedale palermitano Villa Sofia e medico personale del Presidente della Regione, oggi agli arresti per truffa al sistema sanitario, avrebbe affermato: "Lucia Borsellino va fermata, fatta fuori come suo padre".

Dall'altro capo del telefono c'è proprio lui, Rosario Crocetta, che non replica, non risponde e si giustifica dicendo di non aver sentito quelle parole. Una vicenda resa ancor più complicata nel momento in cui la Procura di Palermo ha smentito questa intercettazione, però confermata da L'Espresso.