La sentenza n. 1260 del 15 settembre 2016 (depositata il 26 con protocollo n. 40030), emessa dalla Sesta sezione penale della Corte Suprema di Cassazione, è stata interpretata quasi unanimemente come una svolta giuridica che apre alla coltivazione domestica della cannabis. Il caso era quello di un piccolo coltivatore di Siracusa scoperto con una sola pianta in un vaso del terrazzo di casa. Il Gup del Tribunale della città di Archimede aveva già stabilito il non luogo a procedere in ordine al reato di coltivazione di sostanze stupefacenti nei confronti del giovane, con la motivazione che la quantità di principio attivo presente nella piantina fosse troppo basso per prospettare la possibile diffusione sul mercato dei suoi fiori essiccati, fatto che naturalmente costituisce ancora reato nel nostro paese.
Il Procuratore della Repubblica siracusano aveva immediatamente impugnato la sentenza. Impugnazione che pochi giorni fa la Cassazione ha respinto considerandola infondata. Da qui nasce la ‘leggenda’ della sopravvenuta liceità della coltivazione domestica di marijuana.
Dubbi sull’interpretazione della sentenza
Ma vediamo nel dettaglio i passaggi più contrastanti della deliberazione degli Ermellini. Il testo si apre con la spiegazione della sentenza emessa dal Gup di Siracusa il quale, stante la vigenza della legge sugli stupefacenti n. 309 del 1990 (la famigerata Jervolino-Vassalli), ha stabilito che la bassa percentuale di principio attivo contenuto nella pianta (1,8% di THC) fosse sufficiente a ‘confezionare’ solo 12 dosi e non fosse, dunque, idonea alla diffusione della stessa sul mercato.
La conclusione logica del Tribunale è stata il ritenere la coltivazione in terrazzo della pianta di cannabis destinata all’esclusivo uso personale dell’imputato. A questo punto i sostenitori dell’antiproibizionismo staranno già esultando, ma è proprio sulla percentuale di principio attivo contenuto nelle piante, alle loro dimensioni e al grado di maturazione che si sta combattendo una battaglia in punta di diritto.
Pacifico che coltivare una pianta di marijuanacon bassissimo principio attivo non rappresenti reato. Il problema penale, per i coltivatori, si presenta quando la pianta fiorisce regolarmente. Non certo il caso in questione del principiante grower siracusano.
Coltivare marijuana resta un reato
Al contrario di quanto stabilito dalla Cassazione, la Procura di Siracusa nel suo ricorso puntava addirittura sulla “irrilevanza della quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza dalla pianta oggetto di coltivazione, rinvenendosi invece nella conformità di quest’ultima al tipo botanico previsto e nella sua attitudine a giungere a maturazione”.
Concetto da ‘azzeccagarbugli’ traducibile con la convinzione del Procuratore della Repubblica che, per costituire reato, basti coltivare una pianta di cannabis il cui seme risulti di una qualità idonea a produrre una alta, e dunque illegale, percentuale di THC. Non ha importanza ai fini della condotta penale il fatto che essa non sia ancora giunta a maturazione, oppure che non sia stata curata ‘a regola d’arte’ producendo così poca sostanza stupefacente (come nel caso in questione). Interpretazione di retroguardia, ma in punta di diritto, che la Cassazione ha ritenuto, appunto, di cassare in quanto “infondata”. Ma sono proprio le motivazioni addotte dagli Ermellini a lasciare perplessi. I supremi giudici escludono l' "offensività della condotta e la correlata punibilità” a causa della sola quantità di principio attivo presente nelle piante perché occorre “valutare anche l’estensione e il livello di strutturazione della coltivazione”.
Dubbio amletico perché, tabelle di dosi giornaliere a parte, non esiste un confine specifico tra quantità adatta per il consumo o per l’immissione sul mercato. Per questo la sentenza della Cassazione si inserisce nel solco di una serie di sentenze fumose e contraddittorie. Urge intervento del legislatore.