Il Jerusalem Post ha pubblicato un ampio resoconto della visita in Israele effettuata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump ed emergono luci e ombre. Il quotidiano riferisce che Trump ha rassicurato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in merito agli sforzi americani per impedire che l’Iran si doti di una bomba nucleare, ha ribadito che senza contrasto al terrorismo non ci sarà pace e ha commemorato i sei milioni di vittime dell’olocausto rendendo omaggio all’ente nazionale per la memoria della Shoa Yad Vashem, ma sembra scansare i temi più caldi.

Strategia americana e israeliana a confronto

Netanyahu apprezza che Trump non spinga in favore della soluzione dei due stati, come il predecessore Barack Obama, considerando il ruolo chiave esercitato da Hamas nell’influenzare le scelte politiche palestinesi in funzione antisraeliana, ma la speranza di un patto tra ebrei, cristiani e musulmani per costruire la pace stroncando il terrorismo islamista, sembra sia prioritaria nell’amministrazione americana, rispetto alla proposta di un piano di pace più concreto.

Il premier israeliano non condivide però l’idea di Trump che auspica un accordo bilaterale diretto tra israeliani e palestinesi, a causa dei frequenti arroccamenti sulle rispettive posizioni.

Di conseguenza, privilegia la tattica opposta per coinvolgere un certo numero di paesi arabi moderati a supporto dei negoziati, esercitando una “moral suasion”, specie sui palestinesi, e forgiare un patto duraturo.

Punti di contatto e nodi da sciogliere

Il Jerusalem Post sottolinea lo scetticismo di molti in Israele sulle reali intenzioni saudite di seguire l’invito di Trump a cacciare i terroristi e far parte seriamente di una coalizione internazionale, ma si apprezza che il presidente abbia escluso un’azione diretta statunitense per forzare le tappe, considerando che la trattativa israelo-palestinese deve svilupparsi in ambito mediorientale.

Il quotidiano israeliano sottolinea però che Netanyahu e il presidente dell’autorità nazionale palestinese Maḥmūd ʿAbbās (Abū Māzen) non sono così pronti a fare la pace come Trump afferma. In effetti, i nodi da sciogliere restano molti, a partire dalla sicurezza, gli insediamenti in Cisgiordania e il controllo politico e militare di Hamas sulla striscia di Gaza.

La svolta di Donald Trump al Muro del Pianto

La giornalista e scrittrice ebrea Fiamma Nirenstein, inviata in Medio Oriente di lungo corso, offre una narrazione molto particolare della visita del presidente americano al Muro del pianto che definisce un gesto semplice ma rivoluzionario perché quel biglietto di preghiera, che tradizionalmente i fedeli inseriscono nel muro, non è solo un gesto rituale ma acquista significato politico se lo compie il primo presidente americano che si avventura in quella zona di Gerusalemme.

Fiamma Nirenstein afferma che l’iniziativa di Trump può cambiare la storia mediorientale e forse quella del mondo, nonostante il presidente degli Stati Uniti abbia agito con la prudenza del caso, rinunciando all’accompagnamento di Netanyahu per sottolineare l’aspetto religioso ed evitare il riconoscimento esplicito della sovranità israeliana su Gerusalemme, città che le Nazioni Unite considerano oggetto di disputa dal 1967.

In ogni caso, i discorsi di Trump hanno messo al centro Gerusalemme, cardine del patrimonio storico, religioso e culturale per il popolo ebraico.

Nirenstein conclude sostenendo che il gesto di Trump è altrettanto rivoluzionario al pari della visita ai Sauditi con l’offerta al mondo arabo di una solida alleanza contro il terrorismo e nel contrasto alle mire espansionistiche iraniane. I due aspetti sono quindi strettamente legati e forse possono gettare le basi di un terreno comune nella lotta al terrorismo, con l’avvio di un processo di pace realistico per l'intera area anche se ancora tutto da definire.