Non è nuova la storia di ilaria alpi e Miran Hrovatin. Mentre tutti i più alti funzionari dello Stato italiano hanno, per anni, millantato promesse sul loro effettivo desiderio di far luce sulla tragica vicenda di 23 anni fa, i giornali non hanno mai smesso di darne notizia. Dal 20 marzo 1994 la notizia è sempre la stessa: poche, nel corso del tempo, le delucidazioni circa quel che realmente avvenne quel giorno a Mogadiscio, in Somalia. L’unica certezza è che la giornalista italiana Ilaria Alpi, inviata del Tg3, insieme al suo operatore Miran Hrovatin, sono stati uccisi.

Si scoprirà che non è stato un caso. Le pallottole che li hanno raggiunti alla testa non erano vaganti. Quello che però non si sa ancora, al di là di ogni ipotesi finora perpetrata, è quale sia stato il reale movente e chi i mandanti.

Le indagini e i depistaggi

Nel periodo in cui la Corte d’Assise d’Appello di Roma condannò all’ergastolo Omar Hassan Hashi con l’accusa di duplice omicidio, ci fu la rivelazione da parte della Digos di Udine di alcune fonti segrete, le quali ammisero di quale portata fu la dinamica dei fatti volta a comprendere il mandato di tali atti criminali. Le fonti dichiararono, in una documentazione ufficiale, i nomi dei mandanti, il movente su quei traffici illeciti sui quali la Alpi stava indagando, e parlarono di una riunione in cui si era deciso il piano d’esecuzione.

Eppure tali dichiarazioni non poterono aiutare la magistratura per i fini giudiziari poiché la Digos, pur di proteggere l’identità delle sue fonti, si appellò all’articolo 203 del codice di procedura penale, rendendole di fatto nulle. Inoltre quegli stessi investigatori vennero destituiti dai loro incarichi, senza la possibilità di procedere con ulteriori accertamenti.

Ma questa è stata solo la punta dell’iceberg. La vicenda, il fatto, la tragedia, il caso, si costruì fin dal suo evento. L’inchiesta della Procura sarebbe iniziata solo due mesi dopo l’accaduto e, all’inizio, molte delle cose che furono raccontate vennero poi smentite. Come ad esempio quel fatto per nulla trascurabile di non aver chiamato i soccorsi, perché, come disse un’inchiesta di "Report" di Milena Gabanelli: "Ilaria era ancora viva, ma nessun medico è mai arrivato".

Oppure quei bagagli aperti e quei referti medici mai arrivati a Roma. Secondo il Generale Fiore furono i carabinieri a prelevare i corpi e i bagagli, ma questa asserzione venne presto smentita. Le valige con all’interno degli oggetti come taccuini, cassette registrate e una macchina fotografica furono prese dai colleghi giornalisti accorsi in Somalia e portate al Porto Vecchio sulla nave Garibaldi. In seguito all’inventario fatto dalle forze dell’ordine, il carico si spostò in Egitto, a Luxor, per poi fare tappa finale a Roma, dove i bagagli arrivarono però senza sigilli.

Fin da subito apparve chiaro che ci fosse qualcuno che aveva l’intenzione di nascondere qualcosa che, si scoprirà, nella rete di intrighi andare ben al di là del duplice omicidio.

Si parlò subito di un’esecuzione, di un intento volontario volto a uccidere. Eppure l’autopsia sul corpo di Ilaria Alpi (a differenza di quella di Hrovatin che venne fatta subito) sarebbe stata richiesta solo due anni più tardi dal magistrato Giuseppe Pititto, il quale aveva richiesto anche una perizia balistica per rivoltare quella fatta dal suo predecessore De Gasperis. Anche qui la chiarezza ordinaria si scontrò pietosamente con quella giudiziaria: ci vollero più perizie balistiche per accertare, contro ogni illazione, che non si potesse escludere l’esecuzione.

Nel 1994 la storia della Somalia era intricata, come ha raccontato Lisa Lotti nel film "Ilaria Alpi, l’ultimo viaggio", prodotto da Magnolia con la Rai sotto la regia di Claudio Canepari e Gabriele Gravagna: "in quegli anni - ha raccontato Lotti - è una terra persa, c’è la guerra civile, un intervento militare mascherato da aiuto umanitario, una tremenda carestia, ma c’è anche qualcos’altro; uno scenario fatto di traffici illeciti".

Traffici illeciti che corrispondevano al contrabbando di armi e di rifiuti tossici nocivi, alla mala cooperazione, ai miliardi trasferiti da Bettino Craxi ai signori della guerra. Sarebbe questa l’inchiesta su cui stava lavorando Ilaria Alpi e, per farlo, avrebbe avuto l’aiuto di un informatore del Sismi (il Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare), in pratica i servizi segreti italiani. L’informatore, da quanto si apprende dalle notizie depositate, sarebbe stato il Maresciallo Vincenzo Licausi, anche lui deceduto a Mogadiscio nel novembre del 1993 di morte violenta. Ilaria Alpi, quattro giorni prima dell’assassinio venne minacciata di morte, è quanto si apprese durante il processo grazie ad una informativa scritta da un agente del Sismi, tale Alfredo Tedesco, il quale però in udienza, visibilmente tirato, dichiarò di non ricordare da chi avesse avuto quelle informazioni.

Il Sismi perciò aveva deliberatamente occultato qualcosa che sarebbe stato utile ai fini delle indagini. Da ciò si comprese quanto le mani italiane fossero macchiate di sangue parimenti a quelle somale.

Nello specifico, grazie all’inchiesta di Sabrina Giannini per "Report", sappiamo che Ilaria stava indagando su un presunto traffico di armi dall’Italia alla Somalia e su una compagnia italo-somala, la Shifco, che aveva avuto in prestito cinque pescherecci dalla cooperazione italiana. Il giorno in cui venne minacciata, il 16 marzo 1994, la Alpi intervistò a Bosaso, nel nord della Somalia, il sultano Bogor. In quel frangente, una delle navi della Shifco era stata sequestrata dai miliziani del sultano, e pare che la flotta di quell'imbarcazione lavorasse per i servizi segreti italiani.

Solo al magistrato Pititto venne in mente di andare a sentire cosa aveva da dire al riguardo il sultano, che poi venne inserito nel registro degli indagati, ma il magistrato fu esonerato dal procuratore capo ancor prima di poter accertare gli eventi, segno che stava seguendo una giusta pista che, però, non venne considerata dal suo successore Franco Ionta.

Durante le indagini, nonostante i depistaggi di Stato e gli insabbiamenti da parte dell’allora "polizia somala organizzata dallo Stato italiano", due furono i nomi che comparvero più spesso con ruoli non del tutto marginali. Giancarlo Marocchino, l’imprenditore che era presente al momento dell’accaduto, che si scoprì non solo fornitore di benzina, ma probabile tramite delle truppe italiane in Somalia, era stato accusato nel 1993 di trafficare in armi ed aveva lasciato il paese per sfuggire all’arresto; peccato che quattro mesi dopo vi era rientrato con venti guardie del corpo al seguito.

Un fatto che, secondo il suo difensore, l’avvocato Stefano Menicacci, non sussisteva. Il secondo nome apparso è stato quello di Giampiero Sebri, figura di spicco nel traffico di armi e nei rifiuti tossici ad Haiti, che accusò Marocchino di aver "sistemato in Somalia quella maledetta giornalista comunista", il quale lo querelò per calunnie nel 2003. In quello stesso anno, Ahmed Ali Rage detto "Gelle" fu il teste accusatore di Hashi, che lo imputò come uno dei sette uomini appartenenti al commando che commise gli omicidi. Nel 2015 "Gelle" avrebbe detto ai microfoni della trasmissione di Federica Sciarelli "Chi l’ha visto?", di aver dichiarato il falso perché era stato pagato per mentire, dunque Hashi venne poi assolto da tutte le accuse nell’ottobre 2016 perché ritenuto innocente.

Da quel 1994, il viaggio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non è ancora giunto al termine

Nonostante la Corte d’Appello di Perugia avesse dichiarato nel gennaio 2017 che sussistessero effettivamente condotte che generano "sconcerto", riferendosi alle indagini sul duplice omicidio, il 4 luglio scorso i giornali hanno titolato della decisione della Procura di Roma di avanzare una richiesta di archiviazione del caso, su visto del procuratore Giuseppe Pignatone e firmato dal Pubblico Ministero Elisabetta Ceniccola, ritenendo che ad oggi, dopo 23 anni, non ci siano prove di presunti depistaggi e vi sia oltremodo l’impossibilità di risalire a moventi e mandanti. In risposta, il 13 luglio scorso, ben 252 parlamentari si sono riuniti alla Camera dei Deputati, insieme alla FNSI e alla madre di Ilaria, Luciana Alpi, per firmare contro l’archiviazione, e per chiedere al Gip Emanuele Cersosimo che ha in mano l'ultima decisione, non più la giustizia che ha miseramente fallito negli intenti, ma solo la verità.

Perché si smetta di parlare del caso Alpi-Hrovatin e si cominci invece a parlare e ad intessere nella memoria storica di quale portata fu il loro lavoro, il modo che ebbero di indagare e la risposta che ebbero dalle autorità e dai criminali, le paure che in tutti questi anni li spinsero ad insabbiare la verità, come se non fosse già abbastanza oltraggioso per le loro famiglie assistere alla cruda messa in scena di pietosi oligarchi. I giornalisti, sempre più spesso, sono accusati di falsare la verità in paesi non democratici come la Somalia, ma non è lo stesso che ha fatto e sta facendo il nostro paese nei loro confronti?