Stop alla paghetta dei genitori se i figli maggiorenni non cercano lavoro. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22314/2017 depositata il 25 settembre, ha accolto il ricorso presentato da un padre nei confronti della figlia 35enne revocando l'assegno di mantenimento precedentemente disposto in favore dell'ex moglie. I genitori, quindi, se sono in grado di dimostrare che la prole disoccupata non ha voglia di lavorare, potranno decidere "liberamente" se contribuire o meno al loro mantenimento. Si tratta, ovviamente, di figli maggiorenni, disoccupati e sani, che non soffrono cioè di alcuna patologia e che hanno già terminato il proprio percorso di studi.

Ma in realtà i genitori non possono decidere dall'oggi al domani di sospendere il mantenimento ai propri figli: è necessario rivolgersi ad un Giudice, il quale, a seconda dei casi, deciderà se autorizzare o meno l'interruzione del contributo economico.

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La Corte d'Appello di Trieste, all'inizio del mese, aveva imposto ad un padre la corresponsione mensile di un assegno di mantenimento di euro 350 alla figlia, ancora studentessa universitaria, da anni fuoricorso. L'uomo, divorziato dalla madre della giovane, aveva personalmente ridotto la paghetta settimanale della figlia ad euro 20 per ragioni educative, a causa del suo volontario ritardo negli studi: per questo motivo la ragazza ha citato in giudizio il padre chiedendo la corresponsione di euro 2.500 al mese, comprensivi di euro 400 per lo svago ed euro 1.000 per le vacanze estive annuali.

Il Tribunale di Pordenone, anni prima, aveva già imposto all'uomo di mantenere economicamente la figlia, secondo gli obblighi assunti con il divorzio ma ciò, a quanto pare, non era sufficiente. Secondo il Giudice, infatti, "Il padre è tenuto a corrispondere l'assegno di mantenimento ai propri figli se non economicamente autosufficienti".

La richiesta della ragazza, tuttavia, è stata ridimensionata: il Tribunale di Pordenone aveva stabilito il mantenimento nella misura di euro 500 al mese pur non ricomprendendo, nella somma, le cosiddette "spese extrascolastiche". Il padre, per questo motivo, aveva appellato la sentenza di primo grado: stava già provvedendo al sostentamento economico della figlia, con lui convivente, ed era sua intenzione, per ragioni puramente educative, regolare il contributo economico mensile della ragazza sulla base dei risultati nello studio.