Lo sciatore tedesco Mark Burkhart, diciassettenne, é morto a Lake Louise ieri, a causa delle ferite riportate in seguito ad una caduta durante un allenamento. Si tratta della seconda tragedia che ha colpito lo sci alpino nelle ultime tre settimane, dopo la morte del francese Paul Poisson, anche lui caduto durante un allenamento in Canada. La nazionale di sci alpino tedesca ed altre figure legate al mondo dello sci hanno espresso il loro dolore e la loro partecipazione al dolore della famiglia del ragazzo, la cui carriera sciistica si delineava promettente.
'Muore giovane chi è caro agli dei'
Si potrebbe accettare il frammento poetico di Menandro come un amaro tentativo di giustificare un evento così inaspettato e ingiusto come la morte di una persona giovane e cara. Racchiude un po’ di dolce saggezza, indubbiamente, forse sufficiente per chi si trova in qualche modo distante dall’accaduto; ma sicuramente non abbastanza per chi, invece, si trova a piangere qualcuno che gli era vicino, e a fare i conti con un vuoto che non si aspettava.
Abbiamo ormai la tendenza a considerare vita e morte come due cose distinte, due ambienti separati: siamo probabilmente troppo ansiosi di essere ansiosi per concentrarci su qualcosa che potrebbe effettivamente procurarci un certo malessere.
Ciò che non è vivo o non ci riguarda e ci disturba, spaventandoci, o ci addolora profondamente. Quindi lo mettiamo ai margini, è come un problema di cui ci occuperemo poi - ma questo poi talvolta arriva inaspettatamente molto prima del previsto. Perché capita che, nel pieno della vita, un qualcosa come la morte di un caro può turbarci a tal punto da farci considerare partecipi in qualche modo di quella fine; oppure, un altro avvenimento, un incidente, ci ricorda che siamo estremamente vicini al rischio di morire nonostante non sempre consapevoli, e ci rende per un attimo più lucidi, più coscienti del fatto che sono due stati in realtà estremamente vicini e non così distinti.
Lemony Snicket scriveva che la morte di una persona cara è come salire le scale al buio e credere che ci sia ancora uno scalino: il tuo piede cade nel vuoto, e c’è un nauseante attimo di cupa sorpresa.
Si tratta solo di empatia o tristezza? Ci sentiamo coinvolti perché siamo profondamente consapevoli che accadrà anche a noi?
Oppure la morte è intrinseca alla nostra vita più di quello che pensiamo, e la morte di ognuno ci tocca profondamente in quanto perdita della specie umana?
Epicuro: la morte non è nulla per noi
Né l’uno, né l’altro. Sicuramente la perdita ci tocca, a volte più profondamente, altre meno, a seconda di chi si perde. Altre ancora, non ci tocca per nulla, ci lascia solo un senso di debita conclusione; e bisogna sottolineare la sottile ambivalenza della mortalità perché ci addolora tanto quanto a volte ci “consola’’, nel momento in cui nel profondo ci diciamo, riguardo a un qualcuno in particolare, che dopotutto è un uomo pure lui. E come ci insegna la variante (errata, tra l’altro) più conosciuta del sillogismo, se Socrate è un uomo, e Tutti gli uomini sono mortali, allora Socrate è mortale.
Empatia, tristezza e egoismo ci sono, perché in parte non è che un intristirsi per la nostra condizione di mortali, e la profonda solitudine che ci caratterizza quando veniamo al mondo e quando ce ne andiamo. E non bisogna nemmeno dimenticare il profondo senso si abbandono che proviamo davanti alla morte di qualcuno di caro. Per quel che ne sappiamo, il dolore più grande è quello di chi rimane, non di chi se ne va.
Ma non possiamo nemmeno definire la morte come intrinseca, anche se sicuramente sono due stati che si intersecano molto più profondamente di quanto non immaginiamo. Il problema è che, una volta che ha allungato i suoi artigli in quello che era stato fino a quel momento il nostro relativamente pacifico universo individuale, i graffi che lascia sono difficili da mandare via.
L’abbiamo sperimentato tutti, e chi non l’ha fatto si tenga stretta quella vaga sensazione di sicurezza che si prova fino a quel momento.
Però, una buona notizia, qualcuno se ne è occupato ben prima di noi. Il filosofo greco Epicuro risolve il problema in maniera netta e precisa, dicendoci che " Il più terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo più. " In pratica, quello che addolora della morte, è la proiezione del dolore futuro; ma dolore che, secondo Epicuro, non dovrebbe essere tale, in quanto la morte è cessazione della sensazione e quindi cessazione del dolore.
L’immortalità potrebbe una soluzione meno passiva di quella che pare una semplice rassegnazione?
No, perché il tempo aggiunto non sarebbe così dolce ma solo più durevole. E una corretta conoscenza della vita e della morte, spegne il desiderio di immortalità. Solo che non tutti hanno questa piena conoscenza e più che altro la saggezza per accettare senza drammi la morte. Scrive ancora Epicuro, che " i più, nei confronti della morte, ora la fuggono come il più grande dei mali, ora come cessazione dei mali della vita la cercano. Il saggio invece né rifiuta la vita né teme la morte; perché né è contrario alla vita, né reputa un male il non vivere. "
Nietzsche e il dire sì alla vita
Il saggio dunque accetta la vita, secondo il filosofo greco. Ma cosa significa l’accettazione della vita? Nella filosofia epicurea significa un vivere senza angosciarsi della futuro e in particolare della morte - che come abbiamo visto non è che cessazione della sensazione e quindi una cosa che non percepiremo.
" Ancora, si ricordi, che il futuro non è né nostro, né interamente non nostro: onde non abbiamo ad attendercelo sicuramente come se debba venire, e non disperarne come se sicuramente non possa avvenire. "
Un’altra forma di accettazione della vita, per quanto diversa, è quella che troviamo nella dottrina filosofica del pensatore tedesco Frederich Nietzsche: si tratta della teoria dell’eterno ritorno. "Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrei viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro (…) dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione. "
Accettare l’eterno ritorno è essenzialmente accettare una profonda tragedia della vita: accettare che è l’unica vita che vivremo, e tutti i dolori che abbiamo vissuto li vivremo per sempre, e ogni gioia che abbiamo provato la proveremo per sempre.
Ed è qui che si distingue l’Uomo dall’uomo. Chi è l’Uomo? É chi accetta il peso di un profondo investimento nella vita attuale, senza orientarla per cercare, dopo la vita stessa, un aldilà dove verrà ricompensato o punito secondo il comportamento tenuto di qua. Implica una totale accettazione degli errori, delle decisioni, di ogni evento che viviamo, una presa di coscienza così profonda del momento attuale che il centro di gravità è completamente invertito rispetto a prima. E "quanto dovresti amare la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?"
L’uomo che accetta l’eterno ritorno accetta in pieno la sua vita, e per accettarlo senza una profonda disperazione, significa che la ama profondamente, imperfezioni e dolori compresi.
Altrimenti, il solo pensiero dell’eterno ritorno lo farebbe contorcere dal dolore.
Eterno ritorno e consapevolezza
Che cosa possono insegnarci riguardo alla morte, i sussurri dei demoni di Nietzsche?
In realtà, l’accettare la vita non è che un accettare anche la morte; le caratteristiche dell'eterno ritorno sono il fatto che sia, appunto, eterno nel tempo, e che quindi comprenda per forza anche la morte e il ritorno alla vita. Quello che bisogna sottolineare della lettura di Nietzsche dell'articolazione vita-morte, è il fatto appunto di accettare entrambe. La morte non è ciò che rendre “vita'' la vita, come non è il male che rende “bene'' il bene, o il nero che rendre “bianco'' il bianco, e potremmo continuare per tutta una lunga serie di opposti.
Sono necessarie l'una all'altra, perché senza vita non c'è morte e viceversa, ma senza essere le sole condizioni sufficienti. Esistono forme di vita che non sono strettamente definibili vita. Quindi, l'accettare l'eterno ritorno con tutti i dolori, gli sbagli ma anche i piaceri significa appunto questo, cioè essere consapevoli che la vita è in questo momento e accettare questa “limitazione'', causata anche dalla morte, senza esserne succubi, e senza separarle come se volessimo accettare solo la vita senza le sue circoscrizioni. La profonda dicotomia tra vita è morte è molto meno profonda di quello che pensiamo, e piuttosto che una dicotomia si rivela un'articolazione; e accettarla in quanto tale permetterebbe di non venire così colpiti ogni volta come se la nostra condizione mortale fosse una novità.
L'Uomo è quindi colui che può ridere alle parole del demone: " L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere! ".