L'attrice sudcoreana Lee Mi-Ji è morta a metà novembre a Seoul: aveva cinquantasette anni. Il suo corpo è rimasto nel suo studio per due intere settimane prima che qualcuno se ne accorgesse. È un caso di godoksa, ovvero di morte solitaria, come riportato dai media coreani.

Kodokushi: la morte solitaria

La parola coreana godoksa deriva dal termine giapponese kodokushi, coniato negli anni '80 per descrivere questo fenomeno, sempre più problematico. Secondo le statistiche riportate dal Ministero della Salute nipponico, i casi di kodokushi sono in aumento e avrebbero raggiunto la quota di trentamila l'anno.

Il problema è così diffuso, che sono nate delle agenzie atte ad occuparsi della pulizia delle case e della rimozione dei corpi. Sono sempre più numerosi gli uomini oltre i sessant'anni, non necessariamente poveri, che si lasciano semplicemente morire di Solitudine, cadendo nell'inedia e nell'apatia, oppure che hanno un malore e, non avendo familiari né vicini che si accorgono della loro assenza, si decompongono sulle loro poltrone, circondati da disordine e scarafaggi.

Le cause dell’aumento di kodokushi sarebbero legate allo sfaldarsi dei nuclei familiari tradizionali, all'invecchiamento esponenziale della popolazione giapponese, e alla tendenza delle persone più anziane ad isolarsi, perché lontane dai figli oppure vittime di un disinteresse cronico.

Spesso preferiscono lasciarsi morire in solitudine piuttosto che chiedere aiuto.

In Giappone la vecchiaia - e soprattutto la morte - sono trattate alla stregua di tabù. Non se ne parla, e molte pratiche religiose sono state abbandonate in un goffo tentativo di limitare gli effetti del kodokushi. La maggior parte di questi morti solitari viene seppellita senza che nessuno sia presente al funerale: i loro oggetti personali e averi vengono recuperati dalle agenzie di pulizie e consegnati al padrone di casa, che dovrà decidere sul da farsi.

Aveva fatto scalpore nel 2010 il caso riportato dalla BBC di Sogen Kato, considerato l'uomo più vecchio di Tokyo, che avrebbe dovuto compiere centoundici anni, ma quando le autorità si sono presentate per congratularsi con l'anziano, hanno scoperto che l'uomo era deceduto da circa trent'anni, trovando il suo corpo mummificato in casa.

La famiglia ne avrebbe nascosto il decesso per continuare a ricevere la pensione.

La problematica di morte e vecchiaia

Disinteressarsi di morte e vecchiaia e, nel caso di Sogen Kato, trattarle senza alcuna forma di rispetto, potremmo dire, è una tendenza non ristretta alla società giapponese. Il rapporto con la morte è sempre variato da civiltà a civiltà, geograficamente e nel tempo, ma è chiaro che soprattutto nell'ultimo secolo sia cambiato radicalmente. I fattori possono essere molteplici: dallo "spegnersi'' delle religioni al passaggio attraverso le due guerre mondiali, fino all'assenza di ideologie e valori profondi in cui riconoscersi. Tutto ciò non aiuta a rapportarsi a qualcosa che, come la morte, fa paura o, in ogni caso, non lascia indifferenti.

È anche probabile che l'estremo egocentrismo e l'ossessione per la perfezione che ci viene imposta in ogni cosa che facciamo e trasmessa da ogni cosa che guardiamo, ci porti ad ignorare due dimensioni della nostra vita che, invece, dovrebbero ricevere una particolare attenzione: cioè vecchiaia e morte. Cresciamo o invecchiamo ogni giorno, ma non vogliamo invecchiare né tantomeno morire, e soprattutto ci disinteressiamo sia dell'una che dell'altra.

Invecchiare - a meno di non farlo come Jennifer Aniston - è fuori moda e non raccoglie like, e soprattutto ci fa sentire in una posizione di debolezza. Consideriamo ormai la vecchiaia quasi come un difetto. Un qualcosa che, invece che arricchire la persona, ci dà addirittura la possibilità di compatirla.

Per questo motivo ricorriamo sempre più alla chirurgia estetica, oppure cerchiamo dei modi per permettere alla nostra coscienza di sopravvivere al corpo biologico che inevitabilmente decadrà, prima o poi. Ciò che è troppo umano tende a darci fastidio, perché ci ricorda la nostra condizione di esseri finiti. La convinzione - o la patina di essa - di non morire mai non ci permette, come potrebbe sembrare, di vivere più leggeri; al contrario, si crea uno strato di non-detto, di tabù, come per esempio nel caso del kodokushi.

Quindi, se da un lato abbiamo una parte della popolazione che si dimentica, invece di accettare che prima o poi dovrà morire, dall'altro abbiamo invece qualcuno che non ha più niente da perdere.

Invece di immergersi di nuovo in una comunità che al contrario gli impone di fare finta di avere qualcosa per cui andare avanti, fosse anche solo un cieco istinto a tenersi impegnato per non pensare all'inevitabile, preferisce chiudersi in casa e lasciarsi morire.

La solitudine dei giovani giapponesi

Il fenomeno dell'isolamento volontario in Giappone, l'hikikomori, si sta diffondendo anche tra i giovani. Secondo il governo, più di settecentomila ragazzi si chiudono in casa e non mettono più piede fuori, se non nei casi in cui è indispensabile. Non hanno più voglia di uscire, socializzare, confrontarsi. Si potrebbe parlare di uno sfaldarsi della comunità, a favore invece della costruzione di reti che connettono gli individui come elementi singoli e isolati, in un sistema dove per sopravvivere basta essere il migliore.

In campo sociologico, questa è una delle ragioni che spiega la diminuzione degli scioperi e, in generale, delle mobilitazioni dei salariati: si pongono meno come gruppi davanti alla direzione, ma piuttosto sono istanze singole, il cui lavoro viene valutato singolarmente, e se devono lamentare un problema lo fanno da soli di fronte ad un capo, e non come comunità.

Nella comunità gli individui, insieme ai diritti, hanno anche dei doveri nei confronti degli altri. È una condivisione attiva, un compartecipare alle cose: si tratta di esserci nel momento del bisogno per gli altri, con la sicurezza che non saremmo lasciati soli a nostra volta. Nella poesia "Nessun uomo è un'isola" di John Donne, il poema dal quale Hemingway ha ripreso il titolo del suo romanzo "Per chi suona la campana", leggiamo:

"Any man’s death diminishes me / Because I am involved in mankind / And therefore never send to know / for whom the bell tolls; / It tolls for thee".

"La morte di ogni uomo mi sminuisce - scrive Donne - perché faccio parte del genere umano". Dunque, sebbene si muoia come un solo uomo, come ci ricorda il filosofo tedesco Heidegger, c'è qualcosa che condividiamo anche nella morte - che è proprio la natura mortale di ognuno. Quindi, quando la campana suona, suona per tutti noi anche se indirettamente. L'indifferenza verso la vecchiaia, verso la morte altrui, non dimostra che indifferenza - o un tentativo di indifferenza - verso la nostra. Ma cosa giustifica quest'assenza di interesse?

Rapporti effimeri

La causa potrebbe essere nel modo in cui costruiamo il nostro entourage. Partiamo da un nucleo familiare relativamente ristretto, e al di fuori costruiamo decine di legami che ci illudono di essere tali.

La struttura della società moderna e l'avvento di internet hanno cambiato profondamente il modo di tessere delle relazioni. Siamo più particelle solitarie che nuclei, e spesso non sentiamo alle nostre spalle la presenza di una rete che dovrebbe essere costituita dalle relazioni che mettiamo in piedi, la cooperazione nella comunità vista sopra.

I social hanno effettivamente cambiato il nostro modo di essere "sociali''. Quello che ci rassicura dei rapporti su Facebook o su qualsiasi altra piattaforma, dopotutto, è la quantità. I post che raggiungono un numero di like notevole, le notifiche che compaiono sullo schermo del telefono, tutti i feedback che riceviamo ci fanno sentire al sicuro dall'eventualità di ritrovarci soli.

Però siamo soli e continuiamo ad esserlo. Le relazioni che si creano in questo modo sono - per la maggior parte - effimere, perché la relativa lontananza che impone internet ci permette di tenerci fuori portata quando vogliamo. Abbiamo un'assoluta libertà nei confronti degli altri utenti. Ciò ci permette generalmente di non sentirci in dovere o in obbligo di fare qualcosa come in altre relazioni, più profonde e più concrete, e di uscirne immediatamente bloccando un contatto o togliendolo dagli amici. Ma ci rende anche estremamente soli, perché di conseguenza tendiamo a riflettere questa modalità disimpegnata nei rapporti materiali, il che ci rende sempre più singoli alla deriva. Ricordiamo il dialogo scritto da Antoine de Saint-Exupéry nel "Piccolo Principe":

"Dove sono gli uomini?", riprese il Piccolo Principe, "Si è un po’ soli nel deserto…", "Si è soli anche fra gli uomini", disse il serpente.