In Million dollar baby si sente dire: “la gente ama la violenza”. Una frase che sembra una sentenza, una frase che rivela una verità intrinseca dell’essere umano: la gente ama la violenza, la gente ama parlare di morte. Oltre a cibarsi di Cronaca Nera, le persone, non sazie, placano la loro fame di sangue con film o telefilm che hanno al centro delle loro trame casi da risolvere, omicidi brutali e folli assassini. Qualche esempio? Il tanto amato “Il silenzio degli innocenti” e “Criminal Minds”, per non parlare di NCSI.

La gente è assuefatta dalle notizie di cronaca nera.

Il telegiornale sembra non parlare d’altro, così come i social. La televisione riporta il caso di un uomo che assassina la fidanzata e le persone cosa fanno? Continuano a cenare. Certo, ascoltano interessati, ma sempre meno inorriditi. Un brutale assassinio non fa più passare l’appetito.

Come i social e i media distorcono la realtà

Sentire parlare di morte violenta così tanto spesso, può portare l’individuo a guardarla con occhi diversi. Non è più scioccato, ma incuriosito e vuole sapere, sapere e sapere. Si sfila i panni da uomo comune e indossa quelli da detective. Davanti a tali avvenimenti non c’è più né tatto né rispetto. Le vite della vittima e del suo aguzzino vengono setacciate e sbattute in prima pagina, rimangono per giorni nella bocca di giornalisti e presentatori, le loro storie balzano da un social ad un altro.

Niente viene tralasciato, nemmeno il più piccolo dettaglio: bisogna sapere tutto. I social network, in questi casi, ricoprono un ruolo fondamentale. È il mezzo di comunicazione per eccellenza, il mezzo in cui ogni opinione, anche la più illecita, può essere espressa. Le persone, commentando articoli di cronaca nera o scrivendo post a riguardo, sentono di non essere sole.

Far parte un gruppo numeroso che addita un altro come un mostro, fa sentire meglio la gente. La fa sentire migliore e parte di qualcosa. Un qualcosa che però è solo un’illusione, che non ha né confini né definizioni.

La realtà, filtrata da uno schermo, viene così distorta: paradossalmente ci appare distante, immaginaria. Perdiamo il senso del tragico, inconsciamente percepiamo il tutto come se fosse finto, come se la cronaca nera non fosse che un gigantesco Truman Show.

Questa visione distorta, poi, non appartiene ad un singolo, ma all’intera opinione pubblica, trovando in questo modo un rinforzo, una ragione d’essere. "Se lo pensano tutti gli altri, posso pensarlo anche io". Una sorta di scarica barile, di condivisione della colpa che ci fa sentire meno colpevoli, quando ci si ciba della vita degli altri.

Non dovrebbe sorprendere, allora, vedere persone parlare di “Storie maledette”, programma che porta in televisione approfondimenti ed interviste su casi di cronaca nera, come se si riferissero ad un film o ad episodi di una serie. La puntata sul caso di Sara Scazzi è stata seguita da quasi due milioni di persone, con un clamoroso riscontro sui social. Meme e citazioni come assi nella manica per far apprezzare maggiormente il proprio post.

Su Facebook e su Twitter si leggono commenti di ogni genere. C’è quello che prega di non rivelare come andrà a finire la puntata di “Storie maledette” su Sara Scazzi, perché non vuole rovinarsi la “sorpresa”; ci sono quelli che ipotizzano cosa accadrà; infine ci sono quelli che pregano che la puntata dello show più seguito da tutti, la vita vera, sia coinvolgente, piena di twist. Gli spettatori vogliono novità sulle indagini, vogliono che queste prendano pieghe diverse, vogliono rivelazioni. La realtà diventa uno show, la morte l’ospite più atteso.

Perché la paura diventa uno spettacolo?

Mettere in scena la paura è un modo per scongiurarla. Una sorta di catarsi, come per le tragedie greche. Il terrore che un individuo può avere di venire rapito, torturato o ucciso sembra ridursi davanti alla sua continua “pubblicizzazione” in televisione.

Davanti ad una notizia orribile, che fa paura, l’uomo può arrivare a sentirsi meglio, perché pensa: “non è accaduto a me”. Tutta questa attrazione malata verso morti e psicopatici non è che un mezzo di difesa da questi. Più si conosce qualcosa, meno se ne ha paura. Sapere come, quando e perché un uomo ha ammazzato la moglie o una madre ha ucciso il proprio figlio può far credere alle persone di essere in grado di saper predire una tragedia e, quindi, di sapersi mettere a riparo in tempo. Inutile dire che, per la maggior parte dei casi, è solo un’illusione. Ma è un’illusione potente, un’illusione che paga come prezzo la perdita di realtà, di umanità. La vita diventa una telenovela, le persone personaggi.