Era prevedibile? Chissà. Su un muro ieri sono apparse frasi di scherno verso Marco Biagi, il professore bolognese tra le ultime vittime di una lotta armata ormai morente, ma non meno efferata. Ucciso il 19 marzo 2002, al rientro dal lavoro, sul portone di casa, appena smontato dalla sella della bici con cui si spostava nella sua meticolosa vita di docente tra casa e ateneo. Vittima delle “Nuove Brigate Rosse”, una sigla che portava con sé un marchio di fabbrica, una sorta di “brand” dell’eversione (come ebbero poi a definire gli stessi membri incarcerati tra cui spiccava l’irriducibile Desdemona Lioce), a disposizione di chi ne abbracciasse la causa terroristica.
Ritorno al passato
Inutile speculare sulle ragioni e sugli autori di quelle frasi. Ma di certo suonano come un ritorno al social ante-web, quando il pensiero non circolava ma era statico e verticale, affidato a bombolette spray. Sembra tornare davvero indietro agli Anni di piombo, con una ritualistica e un frasario inusitati: “1000 Biagi”, “Biagi non pedala più” “ Onore ai compagni combattenti”... E infine il ricordo per Mario Galesi, tra gli ultimi Br ad ingaggiare uno scontro a fuoco in cui rimase ucciso, ma non prima di aver strappato la vita ad un agente, non della Digos o delle squadre speciali, ma della Polfer nel corso di un controllo di routine su un treno.
Scritte tra goliardico, simil-rivoluzionario e sinistro monito, a risuscitare fantasmi antichi.
Scritte nere su una parete bianca dell’Università di Modena, che subito e lungamente stigmatizza col suo Preside Andrisano l’episodio: "La comunità accademica di Unimore è profondamente turbata per le ingiuriose scritte comparse stamane sui muri del Foro Boario, che offendevano la memoria del professor Marco Biagi. A nome mio personale e dell’intero Ateneo desidero far giungere alla vedova Biagi, ai figli e ad a tutti i famigliari del giuslavorista la nostra ferma condanna per un episodio che si iscrive in un clima di odio che da sempre accompagna in alcune frange, fortunatamente marginali, della società il ricordo di un intellettuale che ha servito con generosità lo Stato e che si è speso per l’inclusione dei giovani nel mondo del lavoro.
Evocare i fatti di 16 anni fa con disprezzo per il sacrificio del nostro docente è un atto di inciviltà”.
Quello di Modena come simbolo degli atenei epicentri di vecchie battaglie politiche, fucine spesso della “peggio gioventù” che teorizzava in aula la lotta armata e l’abbattimento fisico del nemico, anche fossero solo accademici e consiglieri politici come Biagi, e prima D’Antona e ancora prima Ruffilli.
Le occasioni della memoria
Tra le più subitanee, a commentare il fatto e il contenuto, le parole via twitter di Michele Tiraboschi, tra gli assistenti più vicini a Biagi: “Queste le scritte oggi sui muri della facoltà di Economia a Modena. Questa la ragione del perché ricordare Marco Biagi. Non uno stanco rituale ma una battaglia di verità. Una morte assurda e ingiusta, maturata in un clima di odio e intolleranza che purtroppo non è scomparso".
E certo nemmeno si sono fatte attendere quelle del figlio di Biagi, Lorenzo, che era impegnato in una cerimonia nella piazzetta Bolognese intitolata al padre e proprio per la ricorrenza a sedici anni dall’omicidio, che ha anche approfittato per far scivolare le parole sul dente dolente della mancata protezione del professore che lo aveva esposto a condanna sicura, ma soprattutto per lanciare uno strale piccato in direzione e bersaglio molto specifici e attuali.
Infatti proprio sulle ricorrenze che la storia delle scritte si complica e si incupisce, quanto più possibile: ricorrenza e parole di una ex-BR, Barbara Balzerani, sul quarantennale del rapimento Moro. Proprio a quelle parole Lorenzo Biagi non ha potuto esimersi dal rimandare. Parole che avevano acceso la memoria ed il dolore delle “vittime indirette” di tanti omicidi politici: figli, mogli, fratelli, genitori.
Ma cosa era successo nei giorni immediatamente precedenti da meritare una risposta traslata di Lorenzo Biagi dai fatti di Modena a quelli del quarantennale di Via Fani?
L’antefatto
Già qualche settimana fa la Balzerani su Facebook aveva chiesto e si era chiesta ironica “Chi mi ospita per i fasti del quarantennale?” alludendo ad un certa insofferenza per il rinnovarsi di un ricordo collettivo, di un anniversario doloroso della Repubblica sull’eccidio di Via Fani e l’esecuzione di Moro.
A quelle parole aveva replicato subito non la pubblica opinione ma, sul "Corsera”, un privato signore di tutto peso, Raimondo Etro, ex brigatista, anche lui con la Balzerani nella organizzazione logistica dell’operazione “Fritz” (nome in codice per via Fani) che non perde tempo e fiato e le impone di: "tacere semplicemente in nome dell'umanità verso le vittime, inclusi quelli caduti tra noi..." e continuando “ ..provo vergogna verso me stesso...e profonda pena verso di lei, talmente piena di sé da non rendersi neanche conto di quello che dice", ed infine, trascinando la stessa Balzerani in un vortice maledetto senza appello "Il silenzio sarebbe preferibile all'ostentazione di sé, per il misero risultato di avere qualche applauso da una minoranza di idioti che indossano la sciarpetta rossa o la kefiah.
Ci rivedremo all'Inferno".
L'affondo
Era passato però pochissimo da quelle icastiche parole, sembra peraltro ritirate e cancellate, che la Balzerani ci ripensa e sente il bisogno di rincarare il giudizio, la forma, e la dose passando dal commento sulla ricorrenza a quello sulle vittime del terrorismo, ree, secondo la sua riflessione, di aver assunto, col pretesto del dolore, un diritto alla parola esclusiva sui fatti degli anni di piombo.
Occasione galeotta è la presentazione, organizzata dalla Libreria Majakovskij, della sua ultima fatica letteraria nella sua nuova vita di scrittrice, in quel di Firenze al centro sociale Cpa, e in una data da far strabuzzare gli occhi: 16 marzo 2018, quarantennale preciso del rapimento dello Statista DC, affatto casuale ma quasi da zampino del diavolo.
Più precisamente, nel salone attonito e, sembra, incapace di reazione, ella avrebbe teorizzato che “c’è una figura, la vittima, che è diventato un mestiere, questa figura stramba per cui la vittima ha il monopolio della parola. Io non dico che non abbiano diritto a dire la loro, figuriamoci. Ma non ce l’hai solo te il diritto, non è che la storia la puoi fare solo te”.
Erano fioccate sui media repliche ora stizzite, ora addolorate, ora sgomente. Avevano rimbeccato alla scrittrice, con copiosi commenti indignati, moltissimi esponenti del mondo politico, delle associazioni, della pubblica opinione, e saremmo fastidiosi a continuare l’elenco. Di certo le reazioni più misurate e ragionate erano venute ancora una volta da quelle “vittime indirette”, coloro che più provano ancora sulla pelle quelle ferite, come nel caso di Maria Fida Moro, ad esempio, da sempre in una sua dignitosa, controversa e personale battaglia a guardia del ricordo politico e familiare del padre Aldo.
Il percorso di una BR
Barbara Balzerani era stata, tra le Brigate Rosse, personaggio di primissimo piano, uno certo tra i più fermi, tra i più “operativi” nella fase più drammatica: dal 1975, dopo l’eliminazione dei primi fondatori (Curcio, Franceschini e Cagol uccisa in uno scontro a fuoco) fino al rapimento Moro ed anche oltre, per essere tra le ultime arrestate nel 1981, non dopo aver cercato di riorganizzare e traghettare parte delle BR nei nuovi “Comunisti combattenti”.
Poi di fatto erano seguiti per tanti, tantissimi ex terroristi, brigatisti e non, di sinistra e non, i pentimenti (con tanto di nomi e circostanze che furono letali per tante sigle eversive) e le dissociazioni (rifiuto ma non collaborazione).
Numerosi militanti che avevano voluto chiudere, più o meno in fretta, i conti giudiziari e personali con quelle scelte.
La Balzerani aveva seguito una sua strada, aperta già nel 1987 con una singolare scelta, condivisa con il suo ex compagno di lotta e sentimentale Mario Moretti (nonché deus ex machina dell’affaire Moro) e Renato Curcio (insomma le due anime più irriducibili della prima e seconda fase), di apparire in tv per sancire a parole la fine e la storicizzazione di un ciclo di lotte armate, quasi fosse un segnale a chi era ancora in armi (sparuti, sbandati ma non meno sanguinari gruppuscoli) che era venuta l’ora di capire che quella stagione si era conclusa in un fallimento programmatico e pragmatico.
Dopodichè, però, difficile svelare come si arrivava da una ammissione maturata nel successivo 1993 che suonava come una revisione umana di certi crimini, se la Balzerani dichiarava “ ... un profondo rammarico per quanti sono stati colpiti nei loro affetti a causa di quegli avvenimenti e che continuano a sentirsi offesi ad ogni apparizione pubblica di chi, come me, se n’è reso e dichiarato responsabile", fino invece alle frasi indubbiamente urticanti e all'imprevedibile dietrofront di Firenze.
Il mestiere di sopravvivere al male
E se urticanti sono le parole e la frase della ex-BR, improntante ad una severa dignità di risposta sono quelle delle vittime cui ella si rivolge.
Ecco quelle dell’adoratissimo nipote dello statista Moro, citato con grande tenerezza da questi nell’ultima delle disperate lettere dallo sprofondo del covo, quando forse si era già arreso, o lo “avevano” arreso, all’infame ineluttabilità dell’esecuzione.
Dice Luca Moro: "Noi non abbiamo scelto di essere vittime e non ne abbiamo fatto un mestiere. Voi avete scelto di fare i brigatisti e di piombare nelle nostre vite distruggendole - cosa di cui avremmo fatto volentieri a meno - negli ultimi quaranta anni avete avuto lo spazio, la voce e la visibilità. Cose che a noi sono state negate... Sembra che l'esperienza di essere a contatto con Aldo Moro in quei cinquantacinque giorni non abbia insegnato niente né a lei né ad altri... L'unica cosa saggia che le rimarrebbe da fare sarebbe il silenzio, farebbe una figura migliore come essere umano"
Ed eccole alfine, quelle di replica indiretta del nipote del giuslavorista assassinato, a caldo della scoperta degli slogan sui muri di Modena.
Dice Lorenzo Biagi: "Provo un grande disgusto nei confronti di questa frase anche perché offende noi vittime e tutte le persone che hanno sofferto. Io, ad esempio, come figlio di Marco Biagi e come vittima penso che ci dovrebbe essere più rispetto nei confronti di noi vittime perché una frase del genere credo che sia completamente irrispettosa nei nostri confronti. Il monopolio della parola non lo vogliamo avere noi vittime, ma non lo dovrebbero avere di certo loro che sono solamente degli assassini e dovrebbero tacere e basta".
Una replica, quella di Biagi, su cui quindi sembra pesare un nesso di causa effetto tra il teorema della Balzerani e lo sbeffeggiamento delle scritte, che getta con quella di Luca Moro un ponte ideale tra le due ricorrenze, così simili, così vicine, così accomunate dal piombare inatteso delle lunghe ombre del passato, che si cercano e si trovano nello scritto e nella parola.
Forse mai troppo passato, sembra.