Nel 40° anniversario dell’agguato di via Fani, in cui le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro e uccisero i cinque agenti della scorta, Blasting News ha intervistato Claudio Signorile, vice segretario del Partito Socialista durante i 55 giorni di prigionia dell’ex Presidente della DC. Fu lui a gestire direttamente gli sforzi del PSI per la liberazione di Moro.

Signorile: 'Moro creatore di politica, Andreotti garante del potere'

Onorevole Signorile cosa pensa dell’ultimo libro di Giovanni Fasanella “Il Puzzle Moro” che attribuisce agli inglesi un ruolo determinante nella vicenda Moro?

È un importante punto di sintesi che nasce da un uso intelligente della documentazione venuta fuori dagli archivi inglesi con cui si dimostra il contesto complessivo in cui è avvenuta la vicenda Moro, un grande contesto di interessi politici internazionali. Tutta la vicenda di Moro è un dramma politico, non è un avvenimento di cronaca nera. Ridurla a un atto esclusivamente criminale, come fatto in questi giorni anche da autorevoli giornalisti, significa non solo non aver compreso nulla, ma anche contribuire a fare in modo che non si comprenda nulla.

Quindi il lavoro di Fasanella conferma, potremmo dire finalmente, la dimensione internazionale del caso Moro?

È brutto dirlo, ma la questione Moro è un effetto collaterale della seconda guerra fredda.

È questa la lettura che bisogna darle. È un intreccio. Non c’è dubbio che le Brigate Rosse godessero delle attenzioni dei servizi inglesi e americani e man mano che cresce l’obiettivo dell’ingresso del Partito Comunista nel Governo diventa utile qualsiasi elemento che potesse incidere e fermare questo processo. Le Brigate Rosse hanno avuto il loro cammino, quello di un movimento antagonista che fa la scelta della lotta armata e fino al 1978 ha come obiettivi magistrati e i direttori delle grandi fabbriche.

Quando sequestrano Moro, il salto che fanno è incredibile, le Br sono già state orientate, indirizzate e infiltrate.

In quale anno le Brigate Rosse iniziano a subire condizionamenti?

A partire dal 1976, quando le attenzioni su quello che stava accadendo in Italia diventarono molto più forti. Lo dicono le ultime carte rinvenute negli archivi inglesi, dove si parla di un’azione sovversiva che doveva essere messa in atto per interrompere il processo che stava avvenendo.

Uno degli strumenti potevano essere le BR. Quando gli ex brigatisti affermano di aver studiato anche le abitudini di Fanfani e Andreotti prima di decidere il rapimento di Moro, dicono una idiozia. Loro andarono direttamente su Moro perché Fanfani era già un notabile e Andreotti non era una figura politica.

Che figura era Andreotti?

Andreotti è sempre stato un garante del potere. Esercitava quasi sempre il potere per gli altri. Era uno che garantiva gli accordi. Diabolico, intelligente, furbo, non ha mai pensato di essere un leader produttore di politica. Lui non ha mai imposto il suo indirizzo, ma raccolto e garantito gli accordi fatti in altre sedi. Moro invece era un creatore di politica, un uomo capace di far diventare importante il ruolo di Presidente del partito, carica che ricopriva al momento del sequestro e che fino a quel momento, di fatto, non aveva mai contato nulla.

Vede, noi dobbiamo dire le cose per quello che sono veramente: quando Moro nelle settimane precedenti al sequestro impone all’intera Democrazia Cristiana il passaggio dal compromesso storico al governo programmatico col PCI, e in prospettiva anche al governo di solidarietà nazionale e dell’alternanza l’obiettivo era quello di ricostruire l’unità del paese, mai raggiunta dopo la fine della guerra. Era un obiettivo altissimo di cui erano consapevoli ovviamente Moro e Berlinguer, ma anche noi socialisti. E questo dava fastidio ai cosiddetti guardiani di Yalta, che fino ad allora si erano sempre rapportati con un paese che aveva perso la guerra, non dimentichiamocelo mai, e che era controllato. Ricominciare a tessere i fili dell’unità nazionale significava per l’Italia l’assunzione di un ruolo diverso e da protagonista nel Mediterraneo.

Moro è colui attraverso il quale si stava stabilizzando questo processo politico e la linea della fermezza durante il sequestro è l’ultimo colpo di coda dei guardiani di Yalta.

La trattativa per la liberazione di Moro e il suo fallimento

Signorile parla poi dell'operazione messa in atto dal Partito Socialista per liberare Moro, tentativo che gestì personalmente su mandato di Craxi, degli incontri tenuti in quei giorni con Franco Piperno e Lanfranco Pace, “mediatori” di Autonomia Operaia e molto vicini in quelle settimane ai brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda e della mattina del 9 maggio 1978, quando il corpo di Moro fu ritrovato in via Caetani a bordo di una Renault 4 rossa. A Roma tre settimane fa la lapide dedicata all'ex presidente della DC è stata imbrattata con scritte e simboli neonazisti.

Onorevole, nei giorni della trattativa, quando incontrò ripetutamente Pace e Piperno si è mai posto la domanda per conto di chi trattassero?

Ha mai avuto l’impressione che a trattare con voi socialisti ci fossero dall’altra parte anche altri soggetti oltre alle Brigate Rosse?

Loro non trattavano, loro erano solo dei portatori di nostri messaggi. Io non ho mai chiesto esplicitamente queste cose e mai è stato dimostrato che avessero rapporti con i servizi.

Lei, nel corso dell’audizione in Commissione Stragi del 20 aprile 1999 dichiarò: «ricordo che io stesso dissi a Craxi che vi era questa figura ( Lanfranco Pace) che a mio giudizio era qualcosa di diverso da quello che ci volevano far credere». Per Lei chi rappresentava Pace in quel momento?

Pace non si presentò proprio nei nostri incontri. Lo portò Piperno. Io non chiesi nulla e parlai solo con quest’ultimo.

La mia idea è che Pace fosse una figura che, rispetto a Piperno, dava maggiori garanzie all’area brigatista, ai detentori di Moro di quante ne potesse dare Piperno, soprattutto perché quest’ultimo era una figura molto scoppiettante che aveva l’attitudine a gestire le cose. In questo contesto le BR avevano bisogno di un testimone. Io Pace l’ho inquadrato come un testimone e sulla base di questo ho gestito il rapporto con lui.

Negli ultimi anni lei ha sempre sostenuto che probabilmente il tavolo sul quale voi e Piperno pensavate di giocare le proprie carte e di dare uno sbocco politico alla vicenda Moro non esisteva più e che lo stesso Piperno non sapeva tutte le cose che pensava di sapere. In quale momento la situazione sfuggì di mano a Piperno?

A cavallo del falso comunicato brigatista del Lago della Duchessa, momento in cui a mio modo di vedere dal testo di quel falso comunicato si avverte che la direzione dell’intera vicenda è cambiata e si vuole dare, riuscendoci, un messaggio ben chiaro: una partita è finita, ne è cominciata un’altra. Da quel momento in poi non sono più gli obiettivi brigatisti che muovono la vicenda, bensì la logica degli effetti collaterali della seconda guerra fredda. Io in quel momento ho creduto che quel tavolo ci fosse ancora.

Lei ha affermato recentemente che la mattina del 9 maggio 1978, giorno del ritrovamento del cadavere di Moro in via Caetani, venne invitato da Cossiga al Viminale a prendere un caffè.

Durante l’incontro arrivò la telefonata del Prefetto di Roma che annunciava la morte del Presidente della DC. In merito a quella situazione lei disse di avere avuto «la sensazione che fosse già tutto concordato e che fossi stato chiamato appositamente ad assistere a quella chiamata». Alcuni anni fa Cossiga nel corso di un’intervista disse che «se i socialisti mi avessero detto con chi trattavano probabilmente saremmo arrivati al nascondiglio di Moro». Fino a che punto si spinse la collaborazione tra PSI e Ministero dell’Interno nella trattativa per la liberazione di Moro?

In quei giorni non ci fu nessuna collaborazione, anche perché il Viminale era in una posizione del tutto opposta rispetto a quella del PSI.

La nostra fu un’iniziativa autonoma e Cossiga disse quella frase nell’intervista per giustificarsi. Io l’ho sempre detto che in quei giorni ero pedinato e che si sapevano tutti i miei movimenti. Se fosse ancora vivo mi verrebbe di rispondergli che avrebbe dovuto pensarci lui ad attivare i rapporti con Autonomia Operaia.

Chi era per Lei Aldo Moro?

Era un uomo moderato, un grande costruttore di consenso che si muoveva all’interno di un’epoca in cui i processi politici erano collegiali. Un fine esponente di quella Prima Repubblica che ha ricostruito l’Italia dalle macerie della guerra.