“Ho avuto paura di ritorsioni nei miei confronti”. L’appuntato scelto dei carabinieri Riccardo Casamassima spiega davanti ai giudici della prima corte di Assise di Roma perché la sua testimonianza è arrivata solamente a maggio 2015, quattro anni e mezzo dopo la tragica morte di Stefano Cucchi, deceduto il 22 ottobre 2009 all’ospedale Pertini di Roma, a sei giorni di distanza dal suo arresto per spaccio di sostanze stupefacenti. “All’inizio questa vicenda non mi aveva coinvolto in prima persona, ma man mano che si andava avanti ho iniziato a provare vergogna per ciò che sentivo e vedevo – racconta il militare – troppi comportamenti dei miei superiori non mi erano sembrati giusti, come l’abitudine di falsificare i verbali, così ho finalmente deciso di parlare”.

Pressioni contro il testimone chiave

L’appuntato rivela che non appena il suo nome è uscito sui giornali sono iniziate le pressioni nei suoi confronti, anche con dei procedimenti disciplinari pretestuosi. Certo, in quel periodo ha commesso anche leggerezze, come l’aver rilasciato interviste non autorizzate sulla vicenda, ma con l’unico fine di difendersi da chi stava cercando di screditarlo per metterlo a tacere. Ora grazie alle sue accuse, rilasciate davanti al pm Giovanni Musarò, si è potuto riaprire il processo bis contro cinque carabinieri imputati a vario titolo di omicidio preterintenzionale, calunnia nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria – accusati nel corso dell’inchiesta precedente di aver percosso il giovane – e falso nella compilazione del verbale dell’arresto del 31enne, in cui sparirono tutte le tracce del pestaggio che il giovane avrebbe subito.

La testimonianza dell’appuntato

Ma le parole dell’appuntato ricostruiscono un’altra verità. Fu lo stesso maresciallo Roberto Mandolini, definito da Ilaria Cucchi, sorella della vittima, come il “principale responsabile morale del ritardo di anni nel giungere a scoprire la verità”, a raccontare a Casamassima che “era successo un casino, perché i ragazzi avevano massacrato di botte un arrestato”, riferendosi chiaramente ai militari che avevano effettuato l’arresto di Cucchi.

Mandolini si recò a parlare con Enrico Mastronardi, comandante della stazione di Tor Vergata: al colloquio assistette anche un’altra testimone, Maria Rosati, anche lei militare dell’Arma e compagna di Casamassima, che percepì il nome di Cucchi e raccontò del tentativo di scaricare la responsabilità sulla polizia penitenziaria.

L’appuntato parla davanti ai giudici anche del suo incontro con il figlio di Mastronardi, Sabatino, qualche giorno dopo la vicenda: il giovane gli confidò di aver incontrato Stefano la notte del suo fermo, quando fu portato nella caserma di Tor Sapienza, aggiungendo "di non aver mai visto una persona conciata così male”. Ilaria Cucchi adesso chiede giustizia e ricorda le parole di alcuni degli attuali imputati quando testimoniarono, evidentemente dicendo il falso, durante il primo processo: la serata dell’arresto era stata piacevole ed il ragazzo era stato addirittura simpatico.