Danilo De Rossi si occupa di fotografia da circa vent’anni. I suoi lavori sono stati esposti e pubblicati in Italia, in Inghilterra, in Australia e ad Hong Kong. Il libro "Cityscapes. The Dream of Modernity" marca la conclusione di un progetto iniziato nel 2006 e presenta le sue riflessioni sulla relazione tra l’architettura, il corpo, i sensi e quello che rende un posto unico. In particolare, come una città possa conservare una sua identità in un mondo globalizzato. Il libro è disponibile presso il sito daniloderossi.com. Abbiamo intervistato il fotografo per saperne di più.

Come è nata la tua passione per la fotografia?

Il mio interesse per la fotografia è nato da una passione per le immagini e per il cinema. Mi piacciono in particolare il neorealismo italiano e i fotografi giapponesi del dopoguerra. Sento di avere, da sempre, una forte attrazione verso le immagini di contesti industriali, di periferie di città popolose. La fotografia – e soprattutto il bianco e nero – per me rappresenta l'astrazione della realtà, oltre che un ponte tra il reale e la dimensione onirica.

Quando hai deciso il tema del tuo libro?

Il tema del libro è nato dai miei viaggi e dall'incontro con l'Asia; in particolare Hong Kong, dove ho vissuto per due anni. Credo che essa rappresenti, oggi, quello che molte megalopoli mondiali diverranno nei prossimi anni.

Cosa rappresenta per te la città? Evasione o raccoglimento?

La città rappresenta un organismo vivente, una forza pulsante tra l'ordine e il disordine. Da un lato, i tentativi di razionalizzazione dei tecnici, che tentano di risolvere problemi molto complicati e, dall'altro, la vita umana, con i suoi costanti cambiamenti e con la sua diversità, che crea infiniti casi da risolvere, costante disordine, l’incredibile bellezza delle piccole differenze.

L'evasione si presenta nei quartieri alla moda, nelle vetrine che risplendono e negli ambienti anestetizzati e globalizzati, assenti da qualsiasi imperfezione. Queste aree della città sono disegnate per fuggire in una dimensione irreale.

Quali scatti ti hanno dato maggiore soddisfazione?

Principalmente gli scatti di persone: quando fotografo una persona, devo essere molto vicino ed entrare nel campo del soggetto; in altre parole, devo essere visto.

Lo stesso si può dire per i palazzi e per le strutture industriali. Bisogna camminare fino a trovare il posto giusto, la posizione specifica per interpretare quello che si ha davanti, esplorare il soggetto per entrare in sintonia con la realtà.

Quali foto sono state difficili da realizzare e quali facili?

Credo che la parte più difficile sia stata ricreare la visione delle megastrutture che avevo in mente. Ho trascorso molto tempo a fotografare viadotti e ad analizzare i risultati, ma non riuscivo a creare le immagini che volevo. Nel presentare la mia visione della città volevo ricreare le sensazioni estreme che un uomo delle caverne potrebbe avere avuto di fronte ad una città come Hong Kong: lo stupore e l’incapacità di decifrare un codice a lui incomprensibile.

Le immagini più semplici da realizzare sono state i primi piani degli oggetti che incontravo per strada.

Nelle tue foto quanto è importante la presenza o l'assenza dell'uomo?

Sono due aspetti molto importanti. Da un lato, l'assenza dell'uomo nella visione della città semplifica un processo di razionalizzazione e rafforza l’idea che la realtà possa essere una somma di parti ordinate in unità di misura, che possono essere scomposte e ricomposte a piacimento. L'introduzione dell'uomo nelle fotografie crea, invece, un progressivo disordine, una serie di domande nella testa della persona che osserva: d'improvviso, ci si accorge dell'impossibilità di semplificare, di catalogare, di tentare di ordinare forzosamente.

Hai altri progetti in mente?

Dal 2015 mi sono trasferito a Praga ed ho iniziato a lavorare a un progetto fotografico sulla città. In particolare sono affascinato dalla contrapposizione tra l’architettura della periferia e i monumenti del centro storico.