Uscito il 14 febbraio Black Panther, il 18° film del cosiddetto MCU – marvel Cinematic Universe (l’Universo Cinematografico Marvel) e il primo dove protagonista e quasi intero cast sono afro-americani (illustri ma meno noti predecessori, Spawn, del 1997 e Blade, con Wesley Snipes, del 1998, non appartenenti, però, allo stesso mondo di riferimento). Con Chadwick Boseman come protagonista, una splendida Lupita Nyong’o come ex-fidanzata ed una sempre bellissima Angela Basset come madre, Black Panther è stato pressoché unanimemente acclamato dalla critica come uno dei film, se non “IL” film più riuscito tra quelli di “super-eroi” derivanti dai fumetti.

In particolare sono state apprezzate la regia di Ryan Coogler (con all’attivo, a soli 31 anni, anche il settimo Rocky, Creed – 2015); le sequenze d’azione, come lo spettacolare inseguimento nelle strade della Corea del Sud; la colonna sonora, che spazia dall’hip hop al tribale; i costumi, che riescono ad unire l’etnico e la matrice africana con l’hi-tech più avanguardistico.

Anche dal punto di vista della trama e della complessità dei personaggi si sono sprecate le lodi, con una menzione speciale per il Super-Cattivone di turno, per una volta assolutamente credibile al punto da spingere lo spettatore quasi a simpatizzare, Erik “Killmonger” (interpretato da Micheal B. Jordan).

La trama

Breve “dove eravamo rimasti” per i fan della “continuity”: avevamo lasciato Chadwick Boseman/T’Challa in Captain America: Civil War (2016) quando, dopo aver perso il padre per mano del Cattivone di quella-volta-lì, deve ritornare nel suo regno di Wakanda, immaginario stato del continente africano, e diventarne il legittimo sovrano.

Quello che nessuno (a parte, ovvio, i suoi abitanti) sa, è che Wakanda è tutto fuori che un piccolo paese sottosviluppato come il resto del mondo crede: in realtà, grazie ad un metallo alieno, il vibranium, fortunatamente caduto dalle loro parti qualche centinaia di anni fa, le tribù che vi abitavano hanno potuto progredire al punto da essere, attualmente, avanti di qualche secolo rispetto al resto dell’umanità.

Il regno di T’Challa è un insieme variopinto di tradizione ed innovazioni futuristiche, di torri svettanti e pascoli, di alta tecnologia e riti di iniziazione. Per essere ufficialmente riconosciuto come il legittimo erede, ad esempio, bisogna superare la sfida degli eventuali pretendenti, sovrani delle altre tribù. Il tutto ai piedi di rocce, con il popolo che balla ed incita i contendenti e con le guardie reali, affascinanti e temibili donne guerriere capitanate dal generale Okoye (la statuaria Danai Gurira), vestite come Grace Jones (secondo la definizione di uno stesso personaggio del film) e armate di lance la cui punta in vibranium è potente abbastanza da capottare un’auto in corsa.

Svelarvi troppi particolari vi priverebbe del gusto di scoprirli in prima persona. Basti sapere che ci sono tutti gli ingredienti per farne uno splendido capitolo iniziale di una nuova epopea (d’altronde Chadwick Boseman ha firmato per altri 4 film con Marvel Studios). E che i vari elementi sono sapientemente dosati: c’è il conflitto alla Caino-Abele, tra due parenti stretti, che rappresentano anche due mentalità opposte di vedere le responsabilità che portano i “grandi poteri” (alla Spider-Man), in questo caso rappresentati dall’avanzamento tecnologico e dalla prosperità di cui gode Wakanda. C’è il girl-power, divenuto attributo mai-più-senza del politically-correct Hollywodiano (e non solo) attuale, quindi lo spiegamento di forze al femminile di cui gode il sovrano, dalle Valchirie tecno della sua armata, alla volitiva ex-fidanzata, che, oltre ad affiancarlo in ogni missione, gli salva la vita e il regno.

C’è la versione femminile e teenager dello scienziato-inventore di gadget fantascientifici che ogni super-eroe che si rispetti ha al suo fianco, in questo caso la sorellina di T’Challa, Shuri, vera nerd in gonnella che costruisce treni a scorrimento magnetico, guida il fratello in missione e l’automobile al posto suo in remoto, guarisce agenti C.I.A. feriti guardando dove si trova la pallottola grazie ad una scansione olografica 3D, e spara pure ai ribelli golpisti (c’è pure un golpe, sì, non manca proprio niente) con due cannoni al vibranium portati come guanti. Basterebbe molto meno per conquistare pubblico adolescente (e non solo) maschile e femminile.

E, in tutto questo, ci sono anche quesiti veri, domande esistenziali e molto attuali, quali cosa sia giusto fare, quando si ha la possibilità di essere, come è il caso di Wakanda, un regno felice, prospero ed avanzato: ci si isola e ci si nasconde dal mondo, per paura delle – inevitabili – implicazioni, o si cerca di mettere il proprio sapere al servizio degli altri, per aiutare i propri simili nel resto del pianeta?

I lati positivi del film

Molti. L’universo di Wakanda, quel suo mix di antico e futuristico, di colorato e iper-tecnologico, di Africa e sci-fi da Blade Runner in poi, che riesce ad essere credibile quanto potrebbe essere una storia alternativa (non a caso, ad un certo punto, nel film, si parla del fatto che si siano sempre sbagliati a cercare El Dorado nell’America del Sud, la città d’oro in realtà si è sempre trovata in Africa – in questo caso schermata da un sistema di mascheramento che farebbe invidia ai Klingon star trekkiani).

La presenza di una buona dose di humor, non massiccia come nell’ultimo Thor-Ragnarok (d’altra parte nei primi capitoli della sua personale saga, anche il “Dio del Tuono” c’era andato più piano), ma comunque sempre opportunamente disseminata.

Tra i tanti momenti, il generale Okoye che prende in giro la Black Panther, subito supportata da madre e sorella, per essersi “frizzato” quando ha rivisto la sua ex-fidanzata (nel bel mezzo di un’azione per cui rimanere imbambolato poteva non essere la scelta migliore, anche per restare in vita). O quando il Cattivone-che-pare-il-Cattivone (ma che poi alla fine il vero Cattivo è l’altro) disintegra la macchina in corsa e Lupita Nyong’o si ritrova seduta per terra col volante in mano. Immancabile la battuta che suona come una frecciata all’amministrazione trumpiana, quando T’Challa afferma che in tempi come gli attuali, “il saggio crea ponti, lo stupido (“the fool”) innalza barriere”.

Le ragioni dell’antagonista di T’Challa, talmente comprensibili da mettere in discussione lo stesso eroe e farlo riflettere sul senso dell’eredità che gli ha trasmesso il padre.

Ciò che lo spinge non è tanto la consueta brama delirante di dominio del mondo, ma un sentimento di rivendicazione delle ingiustizie subite dalla “sua” gente nel corso dei secoli e tuttora. Un sentimento in effetti non dissimile da quello del movimento originario delle Black Panther degli anni ’60, non a caso gli anni in cui Stan Lee crea il fumetto (1966, per la precisione), e che lo rende un alter-ego dell’eroe in tutto e per tutto, ponendo quest’ultimo davanti allo stesso dilemma cui l’aveva già posto la sua ex-fidanzata.

La musica e l’attitudine della maggior parte dei personaggi, che si muovono con quel piglio da rockstar super-cool che li rende in automatico “trooopo giusti”, come direbbe Enzo Braschi (il paninaro del Drive In, per i millennials).

Il cameo di Stan Lee, marchio di fabbrica irrinunciabile, atteso ormai dagli amanti dell’universo Marvel quanto (o più di quanto) i cinefili attendevano di scoprire la sagoma di Hitchcock nei suoi film.

I lati negativi

Bisogna attendere un’infinità ed oltre per i consueti after-credits cui ormai la Marvel ci ha abituati. Vi do un indizio: ce ne sono due, non lasciate il cinema prima dell’ultimo, anche se state perdendo le speranze. C’è.

Bilancio totale

Decisamente positivo. Certo, va ricordato che si tratta di un comic-movie a tutti gli effetti: ben fatto, migliore di molti altri, adatto anche ad un pubblico giovane e familiare, ma naturalmente (e comprensibilmente) può far storcere il naso ai non-amanti del genere action con eroi-più-o-meno-mascherati tratti da fumetti. Diciamo per molti, ma non per tutti.