Iniziamo da Temptation Island e dal suo commento sui social network su come sia impossibile fare comunicazione politica “senza comprendere a fondo questi codici ormai egemonici”. Può spiegarci meglio questo concetto?

L’evidenza di fondo è lo sganciamento, ormai profondo, tra la politica e il racconto di realtà. Assistiamo quotidianamente, a tutti i livelli, a una comunicazione politica svuotata di senso, non referente rispetto alle cose. La vacuità del discorso politico è il sintomo della preoccupante incapacità della politica di permeare l’esperienza quotidiana e il senso comune del cittadino: “Ti guardo e non ti vedo, ti ascolto e non ti sento, non chiedermi di crederti, non lo farò”, cantavano profeticamente i CCCP – Fedeli alla Linea.

La politica oggi è tanto parlata dai protagonisti quanto inascoltata dalle persone. Usa molto spesso codici slabbrati per esprimere stereotipi decotti. È una fabbrica di malintesi. Quante volte, per esempio, capita di ascoltare i politici che spiegano i problemi dei cittadini ai cittadini, proprio a loro che ne sono afflitti ogni giorno? Invece di parlare delle soluzioni a quei problemi? In questo drammatico cortocircuito di senso prende forma la crisi dei codici comunicativi della politica, che non sono collegati alla realtà e che sono il prodotto di una patologica autoreferenzialità della politica contemporanea.

E qui entra in gioco un programma come Temptation Island...

Sul piano comunicativo, “Temptation Island” è il contrario di tutto questo. È il paradigma di una narrazione solidamente referente rispetto alla realtà vissuta delle persone. Anche questo ne spiega il successo ormai puntuale, anno dopo anno, con uno share sempre sopra il 20%, una forte attitudine al coinvolgimento degli spettatori attraverso la fruizione ibrida via social network, specialmente con il live tweeting.

“Temptation Island”, nonostante la leggerezza aleatoria delle vicende raccontate, è capace di una grammatica narrativa che aggancia il vissuto di milioni di persone, lo rende universale e apertamente comprensibile. L’ancoraggio al reale delle storie è il prodotto di un’eccellente capacità di rappresentarlo attraverso codici che – pensando a Gramsci – possiamo definire egemonici, ovvero sono ampiamente diffusi e praticati, espressione della direzione assunta dalle modalità di rappresentazione della società nella quale viviamo.

La tv fa egemonia culturale non da oggi e quelli sono i tratti che ora definiscono l’etica e l’estetica della rappresentazione pubblica. Piaccia o meno agli snob. Sarebbe un errore, infatti, non considerare con serietà e interesse la qualità della narrazione prodotta da quel programma e il suo potenziale di referenza comunicativa: vale a dire il carattere universale dei casi messi in scena, l’essenzialità dell’impianto narrativo che staglia fatti precisi, il rispetto della corretta sintassi del racconto e, non ultimo, la funzione ermeneutica delle musiche. In questa prospettiva, insistere con gli stilemi novecenteschi della comunicazione politica finirà solo per acuire la già marcata distanza tra politica e opinione pubblica.



Quando è iniziato questo cambiamento in Italia? Con il primo Grande Fratello che – guarda un po’ – aveva tra i suoi concorrenti Rocco Casalino che è poi diventato il guru della comunicazione del Movimento cinque stelle e di Giuseppe Conte?

Qui dobbiamo evitare di commettere un errore. “Grande Fratello” e “Temptation Island” sono due format molto diversi, pur rientrando entrambi nella categoria del reality show. Consideriamo il punto distintivo principale: il primo si basava sul tempo reale, con gli spettatori invitati a scrutare gli eventi nell’attimo stesso in cui si realizzavano; il secondo è tutta narrazione differita. È costruzione narrativa ex post: le storie prendono forma con una certa autonomia di fronte alle telecamere, ma poi sono raccontate quando già accadute.

Di qui l’interesse per lo stile e la qualità della narrazione. È questo intervento di composizione del racconto il segreto di “Temptation Island”, che offre la possibilità di uno storytelling molto ben referente. Osservando le cose mentre accadono non si dà la possibilità di una sintassi strutturata del racconto, ma solo quella di interpretare la situazione. Opportunità assai meno pertinente per la comunicazione politica.

È senz’altro interessante il parallelo tra “Grande Fratello” e il Movimento 5 Stelle. In effetti l’ossessione iniziale per lo streaming e l’ambizione di eliminare il retroscena della pratica politica può essere interpretato come una conseguenza deleteria e velleitaria di quel format nella sua applicazione in politica.

Così come la messa al centro dell’azione dell’individuo ordinario da proiettare nel campo straordinario dello star system: più o meno come il cittadino qualunque fatto parlamentare o ministro. “Temptation Island” rappresenta però un paradigma comunicativo del tutto nuovo rispetto a questo. Per tanti versi ne segna il superamento.

C’è poi Silvio Berlusconi che ha creato la tv commerciale e i codici di questo genere di comunicazione e da quando fa politica è stato ospite in decine di trasmissioni pop, da Barbara D’Urso in giù...

Berlusconi è stato un fattore importante di innovazione della tv italiana e, nondimeno, della comunicazione politica in questo Paese. La tv commerciale è stata un potente acceleratore di mediatizzazione della politica e della sua contaminazione con i codici pop.

Un processo che però è cominciato prima e che, negli anni Ottanta della tv commerciale, ha avuto un forte impulso. Tracce di politica pop si ritrovano già nei primi talk show della Rai come “Bontà loro” di Maurizio Costanzo. Capita di rivedere ancora nei programmi revival della tv pubblica, l’ingessato ma illuminante siparietto tra Susanna Agnelli e Rino Gaetano che la cita nel suo brano “Nuntereggae più” ad una celebre puntata di “Acquario” di Costanzo nel 1978.

Quindi Berlusconi ha usato codici già esistenti rafforzandoli e innovandoli...

Berlusconi è il leader telepolitico per definizione, quello che ha ribaltato a suo vantaggio la diffusa diffidenza della politica verso il medium e che ha trovato un punto di forza nell’inscindibilità tra politica e comunicazione.

L’infotainment è un genere oggi ampiamente mainstream e questo è accaduto con la spinta al cambiamento dei codici comunicativi di tanti programmi berlusconiani di enorme successo, come “Striscia la notizia”, “Le Iene”, fino agli ultimi programmi firmati da Barbara D’Urso. Oggi quel tipo di codice, sebbene ancora di successo, fa riferimento a un’epoca precedente della politica pop: infatti il successo dei programmi di D’Urso risponde ad un target di spettatori e spettatrici più avanti con l’età. “Temptation Island” è invece un fenomeno basato sui codici di giovani consumatori della tv ibridata con Instagram, TikTok e con Twitter.



La politica si ispira alla tv o al contrario è la tv che cercando di rappresentare il quotidiano usa le stesse parole della politica?

Come vede questo fenomeno: un declino della comunicazione contemporanea o invece un’opportunità?

Nella sua domanda è implicita la crisi profonda della comunicazione politica contemporanea. La tv usa la politica e il suo parlare a piene mani per riempire i palinsesti con talk show per massima parte ridondanti, perché costano poco e consentono di risparmiare; al contempo, la politica parla autocitandosi e autoriproducendo un discorso pubblico già cristallizzato dai talk show. Come si vede, il cortocircuito è letale, perché si finisce con l’assistere ad una telepolitica che parla di sé a se stessa per la maggior parte del tempo. Cosa manca? La realtà. Non importa se, come a “Temptation Island”, la realtà è finzionale.

Non importa se le storie possono apparire artificiali: l’esperienza che viene rappresentata è emozionale ed è quella di ciascuno di noi. Ciò che conta è che il pubblico avverta quella rappresentazione come vicina ed empatica alla sua esperienza: l’esatto contrario di quando ascolta un politico recitare il solito copione al quale, con tutta evidenza, non crede più nemmeno lui. Detto altrimenti: “Temptation Island” parla di noi, la politica parla di sé.



Continuando su questo tema, crede che questo rapporto tra tv pop e comunicazione politica sia un fenomeno nuovo o anche in passato - negli anni ’60 per esempio - esisteva questo dialogo?

Il rapporto tra la politica e il pop è parte integrante della politica stessa.

Il pop, infatti, ha sempre dato alla politica ciò che da sola non è stata in grado di ottenere: la permeabilità nella vita quotidiana delle persone, poter diventare parte dell’esperienza. Al di là di una radicata reticenza, la politica ha capito abbastanza presto il potere della tv e dei codici della cultura pop nel socializzare il cittadino alla politica e alle idee: si ricorderà il celebre episodio surreale del film “Gli onorevoli” di Sergio Corbucci, anno 1963, dove uno strabordante Walter Chiari truccava e travestiva con l’inganno l’onorevole del Movimento Sociale interpretato da Peppino De Filippo, fino a trasformarlo in una soubrette da varietà della tv. Ecco, il rapporto tra codici dello spettacolo e della politica era chiaro già allora.

Ma il ricorso della politica al pop è vasto e vario: pensiamo alle diverse correnti del cinema politico come la Nouvelle Vague francese, oppure il cantautorato degli anni Sessanta e Settanta… Un rapporto dialettico, quindi, sempre esistito.



Tornando a un episodio più recente, nel 2013 l’intervento di Matteo Renzi in giacca di pelle e jeans ad Amici di Maria De Filippi aveva stupito molti commentatori politici, aprendo a un nuovo modo di comunicare per il centro-sinistra italiano. A che punto siamo oggi? Il Pd e il centro sinistra stanno continuando su questa strada?

Il rapporto della sinistra con i codici oggi considerabili come egemonici è tradizionalmente ostico e difficile. La sinistra ha vissuto storicamente un rapporto complicato con le tecnologie (a cominciare dall’avversione del Pci per la tv a colori) e con il marketing politico.

Salvo trovarsi puntualmente a cercare di colmare il gap con la destra per necessità oggettiva elettorali, per lo più malvolentieri. Non è un caso che una parte maggioritaria degli elettori di sinistra riconoscano Renzi come un corpo estraneo alla sinistra, quindi un esponente politico sostanzialmente di destra. La sua ospitata ad “Amici” di Maria De Filippi fu, in realtà, anticipata da quella di Piero Fassino a “C’è posta per te” nel 2005, ma anche in quel caso ci fu diffuso scetticismo sui codici comunicativi messi in gioco dal leader dei Democratici di Sinistra. Allora come oggi i programmi di De Filippi, invero profondamente popolari, non sono compresi da una cultura di sinistra esclusiva, intimamente ancora settaria e sempre più distante dagli orientamenti delle classi popolari.

Nella sinistra persiste, nonostante la fine dell’ideologia di riferimento, quella artificiosa distinzione tra cultura alta – desiderabile per una sorta di primato morale – e cultura bassa, da rifiutare, cioè quella dei programmi tv battezzati da un vasto successo popolare. Lo stesso atteggiamento snob che riguarda programmi di ampia diffusione tra i giovani, come per esempio “Temptation Island”, “Uomini e Donne”, “C’è posta per te”, più o meno esplicitamente ritenuti di basso lignaggio. E per questo, comunque, di destra. Con il risultato di aver lasciato da tempo l’egemonia culturale proprio alla destra.



Matteo Salvini è invece da anni un punto di riferimento di una certa tv pop: ci sono le conferenze stampa in ciabatte e costume al Papeete, e ancora l’uso a volte spregiudicato della religione e dei rosari. Qual è il suo punto di vista sulle strategie di Salvini?

Infondo Matteo Salvini fa un uso tradizionale della tv, con la sola significativa eccezione dell’estate al Papeete, che però non è rappresentativa del suo rapporto con la televisione. I suoi eccessi a vantaggio di camera non hanno pagato, ma sono stati momenti eccezionali. Nel complesso è un ospite della tv piuttosto routinario e poco spettacolare. Altra cosa, invece, è la sua comunicazione digital, che usa sapientemente la tv e i media tradizionali vampirizzandoli. Salvini è stato per la comunicazione politica digitale in Italia ciò che Berlusconi è stato per il marketing politico e la telepolitica: un grande innovatore, che ha compreso il funzionamento della rete e che ne ha capitalizzato il potenziale: per esempio, ha capito che la benzina del motore dei social network è la relazione con il suo “popolo” e la coltiva in modo quasi ossessivo.



Il Movimento cinque stelle è nato presentandosi come anti-tv, facendo apologia del web. In realtà Beppe Grillo ha iniziato la sua carriere grazie alla tv pop, Rocco Casalino è un prodotto dei reality show e adesso - dopo anni di regole rigide - anche i politici dei cinque stelle partecipano ai talk show. Cosa è cambiato?

In realtà il Movimento di Grillo non è nato lontano dalla tv. Al contrario: è nato come fenomeno nazionale con la campagna elettorale del 2013 stando permanentemente in tv attraverso la sottrazione e l’assenza dagli schermi. Negandosi alla tv, essa lo ha raccontato più che se fosse onnipresente e lo ha fatto attraverso codici estranei alla solita chiacchiera televisiva. Una strategia geniale quella di Grillo, che ha sfruttato la tv senza esserne inglobato e sottraendo i suoi codici efficienti in quel momento alla trappola dei frame usurati della politica in tv.

Quindi che cosa è stato il Movimenti di Grillo?

La retorica del Movimento della rete è stata acriticamente acquisita e assecondata dai media e anche dagli intellettuali, che hanno raccontato per lungo tempo il Movimento per ciò che non era, tralasciando ciò che invece era: la riedizione del partito-azienda d’ispirazione berlusconiana. Sulle letture del Movimento come fenomeno innovativo ci sono responsabilità del giornalismo, della politica stessa e del mondo della ricerca che ha scambiato le retoriche di Casaleggio per l’effettivo stato delle cose. La cosa più vicina a Guy Debord che si possa trovare nella storia politica di questo Paese.



Spostandoci negli Stati Uniti, Donald Trump è un esempio molto interessante. È nato in tv grazie a The Apprentice, e poi è diventato presidente degli Stati Uniti. Potremmo dire è la televisione, bellezza. La televisione. E tu non ci puoi far niente! Niente?

Diciamolo chiaro ancora una volta: la tv non ha il potere di creare il consenso quando non c’è. Nel 2016 Trump e il trumpismo sono stati la risposta politica all’espressione di bisogni reali espressi da un segmento maggioritario di americani. Non diversamente dal momentum di Salvini qualche anno addietro e di Meloni oggi. La popolarità di Trump, il fatto di essere una celebrity televisiva e la sua familiarità con il mezzo sono stati un elemento molto importante per la sua affermazione alle elezioni presidenziali, ma il fatto mediatico è sempre secondario rispetto al fatto politico. Cioè a una reale capacità di rappresentare istanze deluse dalle amministrazioni uscenti.



Parlando di un fenomeno nato negli Stati Uniti come Black Lives Matter, in questo Europeo l’Italia dopo un po’ di indecisione ha deciso di inginocchiarsi all’inizio delle partite per denunciare le discriminazioni razziali: Enrico Letta aveva chiesto di farlo, Matteo Salvini no. Che ne pensa?

Credo che se i partiti pensano di risolvere la loro sistemica crisi di rappresentanza con posizionamenti estemporanei, condivisibili o meno nel merito, saranno presto condannati al peggio. Questo sarebbe un dramma per la democrazia.



Tornando alla tv e facendo un’analisi molto più generale, perché i reality hanno tutto questo successo e continuano a essere un elemento centrale della cultura pop contemporanea?

Per via della loro ispirazione universalistica. Perché parlano di ciascuno di noi. Perché sanno mettere in scena esperienze autentiche con parole chiare, agganciate a realtà condivise. Nelle quali ci si può identificare. Perché sono referenti del mondo reale anziché autoreferenziali e, quando lo diventano (pensiamo alle ultime edizioni de “L’isola dei famosi”) finiscono. Molti anni fa, ascoltai Peppino Ortoleva spiegare il successo dell’oroscopo sui giornali, cioè quello strano oggetto culturale al quale nessuno credeva ma che comunque tutti leggevano. Il segreto dell’oroscopo, diceva Ortoleva, è di essere l’unico articolo del giornale che parla del lettore anziché di altri. Ecco, i reality di nuova generazione sanno parlare alle persone del loro mondo e raccontarlo attraverso lenti in comune. Proprio ciò che la politica non sa più fare.

Qual è il suo rapporto con i programmi pop della tv italiana e internazionale? Crede valga la pena guardarli? Quali programmi segue?

Guardo tutti i programmi pop, specie quelli più seguiti dal pubblico. Ci sarà una ragione se piacciono tanto e sono interessato a capire il perché ciò accada. Apprezzo la capacità di costruire storie e di narrarle di Maria De Filippi: i suoi programmi sono straordinari nel coinvolgere lo spettatore attraverso le storie. Altra cosa che la politica non fa più. “Temptation Island”, dal punto di vista della sua presa sul reale, è comparabile al miglior storytelling politico.

Una provocazione finale: vedremo mai un reality show sulla politica? Sarebbe seguito come Temptation Island?

Non credo che sarebbe seguito come “Temptation Island”. Sono stati condotti tentativi nel Regno Unito e negli Stati Uniti con scarso successo. La politica funziona se è complemento oggetto del programma, assai meno se ne è il soggetto. Si pensi al successo di serie tv come “House of Cards”, “Scandal”, “The Good Wife”, “The Politician” e “Borgen”: la politica piace se il codice primario del racconto non è quello politico.