Dopo il caso di Massimo Bossetti, condannato anche in seconda istanza per l'omicidio di Yara Gambirasio, si è tornati a parlare molto di Dna. Quanto è affidabile questa prova? E soprattutto può il Dna essere l'unico capo accusatorio nei confronti di un indagato?

La prova del Dna a partire dagli anni 90

Per scoprire qualcosa di più sulla faccenda diamo un'occhiata agli studi dei ricercatori americani che, senz'altro, sono i precursori di questa metodologia scientifica. La prova del Dna viene introdotta negli States all'inizio degli anni 90 e da allora la scienza ha fatto molti progressi.

Per individuare il Dna di una persona servono campioni sempre più piccoli.

E' lo stesso President’s Council of Advisors on Science and Technology (PCAST), un ente preposto a collaborare con il Presidente degli Stati Uniti in merito a scienza e tecnologia, ad ammettere che la possibilità d'errore esiste, eccome.

Come può avvenire l'errore

Innanzitutto partiamo dal presupposto che, per quanto preparatissimi, i genetisti che eseguono queste analisi sono esseri umani. Pertanto, volendo scartare la volontà di falsificare i risultati (anche se vi sono casi in cui è avvenuto anche questo), rimane sempre una possibilità d'errore.

Possibilità aumentata esponenzialmente dal fatto che oggi le forze dell'ordine possono raccogliere tracce di Dna da fluidi corporei, sangue ma anche da semplici "contatti".

I così detti Dna da contatto quasi sempre contengono una mescolanza di materiale proveniente da varie persone.

Anche il fatto di utilizzare tracce sempre più piccole, quasi inconsistenti aumenta l'errore. Soprattutto perché in molti casi la traccia è così esigua da non permettere la ripetizione del test.

Ecco tre casi eclatanti di errore

Joseph Sledge, un uomo della Carolina del Nord che ha trascorso 40 anni in prigione, accusato di aver ucciso una donna e sua figlia. Le prove a suo carico consistevano in una testimonianza di un uomo e dei capelli, il cui Dna portava a Sledge, ritrovati sulla scena del crimine. Dopo 40 anni il testimone ritrattò le sue parole e la polizia rifece il test del Dna sui capelli che non erano i suoi.

Certamente 40 anni di evoluzione di questa scienza hanno permesso un'analisi più precisa. Ma anche oggi vale lo stesso principio: tra 40 anni gli esami del Dna fatti oggi magari con poche molecole da contatto, daranno lo stesso risultato?

Il caso dei coniugi Stock: il Dna falsificato

Caso numero due è quello del brutale assassinio dei coniugi Wayne and Sharon Stock. Venne accusato il nipote Matthews Livers, ma non vi erano prove in carico al ragazzo. Venne mandato a cercare altre prove il detective Kofoed, famoso per riuscire a vedere indizi laddove la polizia non ne rinveniva. Esaminò l'auto che Livers aveva utilizzato quella notte anche se la precedente e minuziosa ispezione della polizia non aveva trovato alcuna traccia.

Il detective dichiarò di aver trovato una minuscola goccia di sangue dietro un sedile. Dopo l'analisi del Dna il nipote Matthews Livers venne condannato all'ergastolo a vita. Ma sulla scena del crimine venne rinvenuto un anello creato artigianalmente. Si riuscì a risalire al proprietario di questo anello, un tale Rayan, a cui però era stato rubato giorni prima. Per il furto erano sospettati e trattenuti due giovanissimi: la 17enne Jessica Reid e il suo fidanzato Gregory Fester. Dopo un serrato interrogatorio i due ammisero di aver ucciso i coniugi Stock nel tentativo di rapinarli. La cosa venne confermata da altre tracce rimaste sino ad allora senza nome. Siccome il nipote Matthews alla fine aveva confessato, Kofoed continuò a sostenere la sua colpevolezza.

Dopo una serrata battaglia legale il procuratore speciale Mock dichiarò che il Dna del nipote Matthews Livers era stato appositamente impiantato nella macchina da Kofoed, convinto della colpevolezza del ragazzo. Il giovane avrebbe poi confessato a causa del suo carattere debole, perché sottoposto a grosse tensioni. Questo clamoroso caso rischiò di mettere in crisi tutto il sistema probatorio e processuale del Nebraska e degli Stati Uniti.

Uno dei casi italiani

Il terzo caso che voglio trattare è tutto italiano. Non si tratta di un omicidio, ma di un errore nel test del Dna che comunque ha creato sofferenze ad un bambino. Nel 1999 nel comasco una donna rimane incinta. Siccome il suo compagno non era certo di essere il padre, a causa di alcuni tradimenti di lei, alla nascita del figlio richiede il Dna.

L'esame conferma la sua paternità. Nel 2003, forse perché non riscontrava somiglianze fisiche con il figlio, richiese l'esame e questa volta risultò chiaramente non essere lui il padre. L'uomo abbandona ogni contatto col bambino, creandogli un vuoto affettivo doloroso. Nel 2013 la madre vince la prima sentenza contro l'ospedale e vince per il figlio un risarcimento di 50 mila euro. Ma ora chiedono anche un risarcimento per interruzione di vincolo parentale. Durante il dibattimento fu lo stesso responsabile del laboratorio del Sant'Anna ad ammettere che non disponevano di kit idonei a quell'esame. Ma per il giudice furono anche seguite male le procedure. errore isolato?

Conclusioni

Il Dna è una prova importante.

Oggi abbiamo scritto di casi in cui si è rischiato di condannare colpevoli, ma spesso è stato utile anche per scagionare degli innocenti. Come sempre è l'uso che si fa di una scienza a caratterizzarne l'utilità e l'efficacia. Ma gli stessi biologi americani, più ancora della Polizia, invitano sempre alla cautela, specie per le tracce da contatto o molto deperite. Il Dna deve essere supportato da un movente e da una storia circostanziale e credibile. Proprio pochi giorni fa un'esecuzione di morte è stata bloccata, in Missouri, perchè non si era più certi della prova del Dna. L'uomo non è infallibile. Lo sappiamo bene.