Su Repubblica.it è apparso un articolo che fa riflettere particolarmente sul mercato del lavoro in Italia. L’articolo metteva in luce con una certa profondità una nuova modalità di ‘essere freelance’, dunque un libero professionista nella seconda decade del 2000. Coworking appare subito come un fenomeno nuovo, che si discosta dalla tipica figura intesa da noi in Italia di libero professionista, Coworking è un qualcosa di più; una condivisione di uno spazio comune, di intenti comuni mediante professionalità diverse tutte volte a tracciare parabole che guardano verso il futuro.
Ci si chiede se questo modello possa essere d’aiuto per un’Italia sempre più attanagliata dal buio periodo di recessione europeo.
Il primo a pronunciare la parola coworking è stato nel 2005 Brand Neuberg, quando sul suo blog diceva ai suoi lettori che una volta lasciata l’azienda per cui lavorava nella Silicon Valley per iniziare un progetto freelance si sarebbe recato in un posto, in un ufficio, dove ci sarebbe stato un certo misteriosissimo coworking con alcuni altri esperti del settore.
La rivista tedesca Deskmag mette ordine alla definizione del concetto stabilendo che esiste infatti nel mondo una nuova modalità di lavoro freelance che si chiama appunto coworking, tutta basata sulla condivisione di uno spazio comune che diventa al tempo stesso fonte di reddito per la stessa attività imprenditoriale.
Vengono analizzate più di 1000 situazioni analoghe e in Europa si segnala una forte propensione a questo tipo di concezione del lavoro soprattutto in Germania, Spagna, Gran Bretagna. Al quarto posto si posiziona l’Italia che può contare circa 72 luoghi di coworking sparsi su tutto il territorio.
A farla da padrone in Europa sono comunque Londra e Berlino dove il fenomeno è altamente diffuso.
In Italia la diffusione è in crescita ma con alcune peculiarità . In Italia esistono portali, incubatori, luoghi di condivisione e spazi comuni che sorgono in maniera veloce ma spesso un po’ troppo improntati a delle specifiche categorie di lavoratori. Liberi professionisti che cooperano e piccoli luoghi di condivisione del lavoro freelance sembrano comunque essere la nuova modalità di lavoro autonomo in Italia; unico problema, non da poco, è che gli italiani in questi ultimi anni hanno dimostrato una scarsa propensione all’attività freelance.
Sul punto, è utile poter analizzare due cose:
I liberi professionisti in Italia sono tanti, la maggior parte ‘provengono’ da un periodo economico diverso e la tendenza ad essere ‘liberi’ ma a non ‘coworkare’ nel nostro paese è netta quanto evidente;
Le modalità di interazione di professionalità diverse racchiuse in uno spazio comune, forse nel nostro paese intaccano involontariamente la superbia del lavoro del singolo, del quale spesso siamo vittime. Imprenditori padri e padroni, politici padri e padroni, vecchie e antiche tradizioni in famiglie che vedono ancora un padre padrone sopra ogni cosa.
La domanda è dunque la seguente: perché non rendersi conto che il paese italiano è uscito da periodi bui con la media e piccola impresa e con il lavoro del singolo?
Perché non valutare dunque la possibilità di riformare questo tipo di attività in maniera seria e competitiva? I dati dell’economia italiana nel 2012 sono allarmanti. Il vecchio schema italico della piccola impresa made in Italy fiammante, ruggente contro tutti, non funziona più. Per combattere i nuovi big Cina, Brasile, India, c’è bisogno che i freelance italiani collaborino costantemente condividendo il proprio lavoro; perché allora non potenziare il fenomeno del coworking rendendola un elemento importante di un network di altri professionisti del settore e non? Il super uomo e l’uno contro tutti, non sono ormai concetti leggermente inappropriati in un sistema economico moderno che vive di cooperazione ed intese? 'Coworkare' può essere la formula giusta per rilanciare l’imprenditoria italiana?