A meno di cento giorni dall'apertura dell'Expo 2015 di Milano, il cui leitmotiv principale è nutrire il pianeta, alimentazione, cibo e made in Italy, poco o nulla si sta facendo per fronteggiare la persistente crisi - che si trascina oramai da anni - che sta flagellando il sistema della zootecnia italiana. Le cause essenziali che hanno colpito questo settore vitale dell'economia sono note da tempo. E nel lunghissimo elenco non sfuggono l'aumento spropositato del costo dei mangimi, il restringimento del sostegno tecnico agli allevamenti, l'accentuazione degli obblighi burocratici, lo sciupio e la dispersione del valore della produzione, l'apatia ed il disinteresse di alcune istituzioni pubbliche. Sembrerebbe inoltre, soprattutto nelle stanze del governo, che non ci sia qualcuno che percepisca la sleale infiltrazione della concorrenza straniera che compromette - sempre di più - l'esistenza delle aziende italiane che producono realmente con la totale filiera del made in Italy tra mille difficoltà.
Così da un lato si mortificano le aziende italiane impegnate tenacemente a restare sul mercati e dall'altra parte si creano le condizioni per fare fallire tutto il sistema agroalimentare della penisola. Ed uno degli esempi più allarmanti - secondo non pochi allevatori - è l'importazione (sembrerebbe dalla Lituania che in passato ebbe difficoltà ad esportare i propri prodotti caseari per ragioni di sicurezza alimentare) del caglio. Cioè quella parte essenziale impiegata per produrre mozzarelle che viene pure esportata in tutto il mondo col vanto dell'eccellenza italiana e che potrebbe rischiare di finire nel calderone del finto made in Italy col conseguente danno di milioni di euro oltre che d'immagine.
A questo punto, quindi, è palesemente chiaro che gli addetti ai lavori devono impegnarsi a ricercare nuovi strumenti per contrastare l'evaporazione dei mercati. È un problema del ministro Maurizio Martina, responsabile delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali; è un problema della politica agricola europea. Le raccomandazioni non sono più sufficienti così come bisogna capire a chi giova il gioco delle sanzioni. In questa ottica a rischio ci sono, pertanto, diversi comparti con centinaia di posti di lavoro. Si passa dai bovini da latte e dai suini di allevamento a quelli da carne; dagli ovicaprini alle bufale da latte senza escludere il comparto degli avicoli sempre più minacciato dalle importazioni dei paesi dell'est Europa. C'è da rilevare, ancora, che al controllo delle importazioni degli animali possono farla franca allevatori senza scrupoli che potrebbero commercializzare pecore e mucche a rischio di virus. Fino a qualche tempo fa si parlava, per esempio, del virus Schmallenberg proveniente dall'Europa del nord. Dell'allarme della possibile pandemia - che aveva interessato la Germania, i Paesi Bassi ed il Belgio - oggi non se ne parla più. Ma questo non vuol dire che si possa pensare ad uno scampato pericolo considerato che ci sono sempre state carenze di dati su diversi aspetti del killer delle pecore e delle mucche.
Ed a questo proposito l'Efsa (autorità europea per la sicurezza alimentare) dovrebbe essere più incisiva e tempestiva con la raccolta dei dati e le informazioni da distribuire a tutti gli Stati membri dell'Ue. L'Anmvi (l'associazione dei medici veterinari) ha già espresso forte preoccupazione anche su questo fronte. Ma potrebbe non risultare sufficiente perlomeno per la salute degli italiani.