Succede che il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta, invitato a un seminario sulle nuove patologie socialipromosso dall’Università di Firenze, ammetta che i casinò italiani «sono in crisi e stanno rischiando la vendita o il fallimento», certificando il declino di un modello di intrattenimento. Tuttavia, un attimo dopo Baretta aggiunge che sulla questione «è necessario riflettere»: per esempio, l’idea di riaprire il casinò Taormina non sarebbe poi tanto peregrina perché «contrasterebbe l’offerta che arriva da Malta».

Business turistico?

Era l’aprile scorso, il sottosegretario si congedò assicurando che il governo non avrebbe lasciato soli né i casino né i Comuni, sottolineando che «le sale da gioco possono essere un vero baluardo contro l’illegalità». L’equilibrismo dialettico di Baretta significò che, con tutte le cautele del caso, il progetto era (ed è) all’attenzione del governo. Qualche settimana prima, manco a dirlo, era stata depositata l’ennesima proposta di legge, presentata dai senatori di Forza Italia Scilipoti, Serafini, Pagnoncelli e Zuffada, per la rinascita del Casinò di Taormina, chiuso negli anni ’60.L’obiettivo del progetto che sta circolando sarebbe quello di bilanciare la presenza delle quattro sale da gioco del Nord con altrettanti casinò nel Centro-Sud, pensati come nuovi acceleratori di business turistico.

Di recente il Corriere della Sera ha fatto cenno a un dossier che Federgioco, l’associazione che riunisce i casinò italiani, avrebbe fatto recapitare al ministero dell’Economia nel quale sarebbero state individuate sei località in lizza per ospitarli: Montecatini, in Toscana; Anzio e Salerno in ballottaggio per Lazio o Campania;Fasano per la Puglia, Taormina in Sicilia.

Quest’ultima godrebbe di appoggi politici influenti e trasversali, compreso quello del MInistro Angelino Alfano.

Sei Comuni in lizza

I sei comuni sono tra quelli che aderiscono all’Anit, l’Associazione nazionale per l’incremento turisticocostituita nel 1969 con lo scopo di giungere in Italia a una regolamentazione del gioco d’azzardo.

In questo contesto l’Anit auspica anche l’apertura di nuove case da giocoa cui si candidano, appunto, i Comuni aderenti. Attualmente le località, tutte a prevalente vocazione turistica, sono 15: Acqui Terme, Anzio, Bagni di Lucca, Fasano, Gradiasco-Salice Terme, Grado, Lignano Sabbiadoro, Merano, Montecatini, Porto Azzurro, San Pellegrino Terme, Sorrento, Stresa, Taormina e Tropea. L’Anit non ha perso l’occasione per replicare al Corsera sostenendo che «si potrebbe spiegareche le regole che disciplinano ilsecondo comparto industriale del Paese per fatturato sono il frutto di una distorsione legislativa che ha provocato danni a persone e territori; che solo in Italia, da ben settant’anni, operano quattro casinò in regime di deroga nonostante due pronunce della Corte Costituzionaleche invitano il Parlamento a legiferare».

In effetti, questa sorta di vertenza parte da lontano.Dopo la stroncatura del 2007, quando l’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato liquidò l’ipotesi di nuove sale perché avrebbe comportato troppi problemi di ordine pubblico, nel 2009 i cuori di croupier, giocatori d’azzardo e sindaci sussultarono di nuovo alla notizia che il premier Berlusconi si era impegnato a riaprire la questione.

Un nuovo modello

Dopo sei anni, durante i quali la lobby del tavolo verde ha covato il fuoco sotto la cenere, ci si interroga ancora sull’efficacia dei casinò italiani, schiacciati dalla concorrenza delle sale da gioco svizzere e slovene.I fautori delle nuove aperture invocano un nuovo modello, che prevede una gestione moderna del business, la concessione ai privatie un’attività ricca di iniziative collaterali con spettacoli e concerti.

Gli enti locali si accontenterebbero, si fa per dire, di ricoprire il ruolo di supervisori e di incassare le percentuali, che valgono fino al 30 per cento del fatturato complessivo.

La partita, dunque è aperta, ma stavolta «le jeux ne sont pas faits».