I dati diffusi dall’ISTAT, nel suo “Rapporto sulla competitività dei settori produttivi” e in parte commentati dal ministro Poletti, il 3 marzo scorso, sono indicativi di quella che è stata la ricetta adottata dall’apparato produttivo italiano per uscire dalla crisi economica, nell’ultimo triennio.

Le aziende hanno risparmiato sul costo del lavoro

Le cifre indicano infatti che, nel biennio ottobre 2014-settembre 2016, il costo del lavoro complessivo è diminuito dell’1,3 per cento e, nel settore manifatturiero, addirittura del 2,4%, a fronte di un aumento del PIL che, nel triennio 2014-2016, è stato dell’1,8-1,9% circa.

Si ricordi che, tra il 2008 e il 2013, il decremento del PIL, in Italia, ha sfiorato complessivamente il 9%.

Ciò significa che il settore produttivo ha operato una riorganizzazione che gli ha permesso di incrementare la produzione (molto poco, a dire il vero) risparmiando sui costi e, di conseguenza, aumentando la competitività dei prodotti. Guardando all’europa, nello stesso periodo, in Spagna, il costo del lavoro è diminuito soltanto dello 0,2% (ma è aumentato dello 0,7% nel settore manifatturiero), mentre in Francia è aumentato complessivamente del 2,6% e, in Germania, addirittura del 5,6%.

I dati evidenziano un incremento di competitività di tutto rispetto

Se si considera la diminuzione del prezzo di beni e servizi (dovuta soprattutto al dimezzamento della fattura energetica), qualcuno ha fatto notare che, nel periodo in questione, la competitività dei prodotti italiani, rispetto a quelli tedeschi, è aumentata del 6,5%!

L’incidenza della contrazione dell’occupazione sui dati di tale sorprendente performance è evidente soprattutto nel settore manifatturiero che, tra il 2008 e il 2014, in Italia, ha perduto il 17% degli occupati, passando da 4,4 a 3,7 milioni di addetti. Il valore aggiunto (PIL) del settore, però, nello stesso periodo, è diminuito soltanto del 4% (a fronte di una diminuzione del 23% in Spagna, dell’1,1% in Francia e di un aumento del 14,5% in Germania).

Se ci limitiamo ai dati alle aziende che occupano tra i 49 e i 250 addetti (tenuto conto che, contemporaneamente, hanno chiuso circa 190.000 piccole e micro-imprese), la produttività oraria – secondo l’ISTAT – grazie all’intensificazione dei ritmi di lavoro e dell’allungamento della giornata lavorativa – sarebbe ora superiore a quella della stessa Germania!

Dove è finito il risparmio sul costo del lavoro?

La scienza economica ci insegna che gli incrementi di produttività vengono in parte reinvestiti e in parte vanno a costituire il profitto dell’imprenditore. In Italia, però, gli investimenti risultano sempre un po’ di meno, rispetto a quelli dei nostri partners europei, mentre i profitti (cioè i guadagni del capitalista) sempre un po’ di più.

Il tasso d’investimento, in Italia, era del 23% nel 2008 e, nel 2016, è sceso al 19% mentre in Europa, la media 2016 è pari al 22%. Contemporaneamente il tasso di profitto, in Italia, era attestato al 45% nel 2008 (media europea: 43%) ed è sceso al 42% nel 2016 (Europa: 41%). Facendo due conti, il differenziale fra tasso di profitto e tasso d’investimento, nel 2016, in Italia è quattro punti in più del differenziale europeo (23% contro 19%). Tutta ricchezza che esce dal circuito produttivo e che confluisce nel patrimonio personale degli imprenditori e dei loro familiari.