Dallo storico referendum del 2016 sono già passati più di due anni, in questo tempo il Regno Unito e l'Unione Europea si sono impegnati nelle complesse trattative che dovrebbero portare all'uscita dall'Europa entro il 29 marzo 2019. Dopo i complessi negoziati, la premier e il suo team sembravano essere giunti ad una conclusione, ottenendo anche l'approvazione dei 27 membri dell'Unione Europea lo scorso novembre a Bruxelles, passando la palla di fatto a Westminster che deve adesso esprime la propria opinione a riguardo. Era l'11 dicembre scorso quando la Theresa May aveva deciso di annullare il voto di Westminster, definendolo un fallimento preannunciato.

15 gennaio: da allora cosa è cambiato?

Poco, forse nulla, i nodi principali delle trattative rimangono aperti e irrisolti: Bruxelles si riafferma convinta della validità dell'accordo raggiunto e chiude le porte ad ulteriori negoziati e così, Londra sembra viaggiare su un treno ad alta velocità in direzione di un no deal.

Gli scenari sembrano drammatici e se oggi la May non riuscirà a strappare un sì ai Comuni, la Gran Bretagna si ritroverà ad essere un "third country", in collaborazione con l'Unione tramite WTO (l'Organizzazione Mondiale del Commercio). Tradotto in termini economico-finanziari, questo significherebbe ispezioni e rigide dogane su tutte le merci provenienti dal Regno Unito in esportazione verso l’Europa e viceversa, innalzamento di frontiere tra l’Irlanda e l’Irlanda del Nord (poiché rappresenta l’unico confine fisico tra UK e UE), la perdita di ingenti somme di capitali e di investimenti scaturiti dall’esistenza sul suolo inglese di sedi europee che per lungo tempo hanno reso Londra uno dei centri finanziari più importanti d’Europa.

Per non parlare dell’inflazione e dei dazi alle stelle, insieme al disagio di oltre 3 milioni di europei tra cui molti italiani residenti in Inghilterra, che perderebbero il diritto alla dimora permanente e all’assistenza sanitaria.

Da Churchill a Wilson fino alla Thatcher, gli inglesi non hanno mai nutrito un grande senso di appartenenza alla fede europea.

Dall’entrata tardiva nell’Unione, al mancato inserimento dell’euro zona, fino alle numerose clausole ed eccezioni ad essa riservate in ogni trattato rispetto ai restanti 27, la storia ci insegna che l’euroscetticismo in Inghilterra non è infatti una novità. Socialmente ed economicamente sviluppato, oggi il Regno Unito è uno dei paesi europei con il più alto tasso di vita.

L'economia e la popolazione inglese sono davvero pronte a reggere questa bocciatura?

I più ottimisti guardano la Gran Bretagna come ad una seconda Norvegia, non ufficialmente membro UE ma da sembra partner nel mercato unico, nella Politica riguardante la pesca e perfino sugli accordi di Schengen. Ma studiando a fondo la situazione della Norvegia non è difficile intuire che il (quasi ex) membro britannico non ha i fondi e le caratteristiche per poter emulare il paese scandinavo.

Dai più ottimisti ai più scettici, c’è chi come Jeremy Corbyn non attende altro che una bocciatura per gettare sul tavolo una mozione di sfiducia che porterebbe il Regno a nuove elezioni e, probabilmente ad un collasso conservatore in favore di un decollo laburista.

Dal canto suo Theresa May non si arrende, dicendosi convinta di poter ancora strappare un sì prima del tanto atteso 29 marzo, mentre c’è chi ancora crede nell’ipotesi di un secondo referendum che capovolgerebbe del tutto la situazione. Fin dal principio la Brexit e i suoi sviluppi hanno scioccato l'opinione europea, sradicando ogni pronostico, se dal canto suo l'Europa non può più far nulla forse è caso di restare in silenzio a guardare fino a dove la Gran Bretagna ha intenzione di arrivare.