Un altro pezzo dell'industria italiana che se ne va. Ma nell'era della globalizzazione, del capitalismo che non fa sconti, non è tempo di amarcord e sentimentalismi patriottici. L'Indesit, azienda italiana produttrice di elettrodomestici, fondata dalla Merloni oltre mezzo secolo fa, è stata ceduta al 60% agli americani della Whirpool. Che così detengono un 66% di diritti di voto.

Tutta la famiglia Merloni vende: la cassaforte Fineldo, che racchiude il patriarca Vittorio Merloni e i suoi quattro figli; vende anche la famiglia di Francesco Merloni, il fratello di Vittorio e patron della Ariston Thermo (azionista con un 4,4%).

I dissapori in casa Merloni erano in atto da tempo, come descrive IlSole24Ore: Andrea, l'erede designato alla guida dal padre Vittorio (uscito di scena per una grave malattia), aveva dovuto fare un passo indietro. Le redini della famiglia sono passate nelle mani del fratello gemello Aristide. Tornata la pace familiare, a inizio anno i Merloni avevano incaricato la banca d'affari Goldman Sachs di trovare un partner.

In ballo c'erano tre compratori: gli americani della Whirpool, i cinesi di Sichuan e la svedese Electrolux. A dire il vero i compratori più accreditati erano proprio i cinesi, che avevano offerto 17 euro per azione, con l'obiettivo di entrare finalmente in un mercato dove non sono ancora presenti.

Poi si è scelta l'americana Whirlpool, che ai sindacati e alle istituzioni marchigiane (la sede legale è a Fabriano) ha presentato il piano industriale più rassicurante dal punto di vista occupazionale.

La Borsa però ha reagito tiepidamente all'acquisizione. Si puntava a un titolo di un minimo di 11 euro e di un massimo di 17.

Ma non è stato così. Il titolo non ha neppure raggiunto gli 11 euro, arrivando a un massimo di 10,50. Ora vedremo come si comporteranno gli americani, per un'azienda che per oltre 50 anni ha prodotto prodotti di qualità e garantito occupazione.

Si allunga così la già lunga lista delle aziende italiane finite in mano straniere.

Cospicua la fetta del mercato alimentare e dell'abbigliamento, ma ora anche l'industria comincia a perdere pezzi. Solo colpa della crisi o di un capitalismo italiano mai davvero indipendente dal sostegno pubblico e capace di rinnovarsi?