La Legge Fornero sulla riforma del sistema pensionistico ha avuto effetti nefasti sull’economia reale, soprattutto in tre direzioni: ha mantenuto in servizio i lavoratori più anziani, ormai demotivati e, di conseguenza, meno produttivi; ha frenato l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, per il ridotto turn-over; ha aggravato i costi del lavoro perché e ovvio che un lavoratore anziano costa di più di un neo-assunto. Inoltre, si è dimostrata socialmente iniqua, con tutte le conseguenze sul piano della “tenuta” del contesto democratico e sociale.
Consapevole di ciò, anche il governo ha aperto, nello scorso mese di giugno, un tavolo di trattative con i sindacati, mettendo sul piatto una propria proposta per i lavoratori over 63, a partire da quelli nati tra il 1951 e il 1955, che ancora non hanno maturato i requisiti di legge della “Fornero”. Si consentirebbe a costoro di andare in pensione con tre anni di anticipo grazie a un prestito, da restituire a banche e fondi Pensioni, con gli interessi, nell’arco di 20 anni, senza “penalizzazioni previdenziali” ma con taglio sull’assegno che potrebbe arrivare fino al 15% per il rimborso delle rate ventennali di ammortamento. Per lo Stato si tratterebbe di una modifica a costo 0.
I Sindacati avrebbero preferito l’accettazione della proposta di Cesare Damiano, Presidente della Commissione Lavoro alla Camera, che prevede di abbassare l’età minima per il pensionamento a 62 anni d’età (e non a 63), con almeno 35 anni di contributi (anziché i 41 o 42 previsti dalla “Fornero”) e una penalizzazione non superiore all’8%.
Damiano prevede inoltre un intervento di sostegno per i giovani che con il contributivo hanno perso l’integrazione al trattamento minimo e per i disoccupati senior con almeno 55 anni di età.
Anche il Presidente dell’INPS, Tito Boeri ha presentato a suo tempo una proposta e, proprio recentemente, si è pronunciato in proposito, con parole di velata polemica sugli intendimenti del governo: "Sarebbe paradossale che il confronto in atto fra Governo e sindacati sulla flessibilità in uscita si concludesse ancora una volta con interventi estemporanei e parziali", ribadendo come "perpetrare il ritardo nel trovare soluzioni sostenibili rischi di alimentare ancora il ricorso a soluzioni inique e onerose, ovvero a soluzioni estemporanee e scarsamente efficaci.
Non si può negare che rate ventennali di ammortamento di un prestito pensionistico costituiscano una riduzione pressoché permanente della pensione futura”. Né si può negare che l’obiettivo di fondo della flessibilità in uscita, è quello di garantire i diritti dei lavoratori “senza aumentare il debito pensionistico e senza creare generazioni di pensionati poveri ".
Alcune forme di flessibilità sostenibile, d'altra parte, per Boeri, "sono alla nostra portata" e darebbero risposte "sia a coloro che vogliono uscire dal mercato del lavoro, pur consapevoli che una scelta anticipata ridurrebbe per sempre il loro trattamento pensionistico sia a coloro che devono entrare nel mercato del lavoro".
Sostanzialmente, Boeri ha difeso la sua proposta, che è, invece, è più articolata e prevede tre punti: 1) uscita a partire da 63 anni e 7 mesi, con almeno 20 anni di contributi versati e con un taglio massimo del 10%; 2) reddito minimo di 500 euro per gli ultra 55enni senza lavoro; 3) facoltà di integrazione volontaria dei contributi versati anche in corso di pensionamento.
Per reperire almeno in parte le risorse necessarie Boeri ha proposto un contributo di solidarietà sugli assegni pensionistici più alti. Su tale punto, il presidente del Consiglio Renzi non si è mostrato contrario ma ha tenuto a precisare che, in ogni caso, non dovranno essere toccati gli assegni al di sotto dei 2.500-3.000 euro. Il confronto prosegue ma, alla fine, l’ultima parola sarà il Ministro Padoan a doverla pronunciare.