La Corte di cassazione, Sezione Lavoro, con Sentenza n. 9749 del 12 Maggio 2016, ha sancito che nessuna norma vieta al datore di lavoro di svolgere attività investigativa a carico dei propri dipendenti. La Corte ha stabilito che tale attività può essere esercitata sia in proprio sia attraverso investigatori e può essere effettuata anche al di fuori dei locali aziendali, purchè sia destinata a rilevare la sussistenza di atti illeciti del dipendente non propriamente riconducibili al rapporto di lavoro.Il fatto traeva origine in seguito al licenziamento di un lavoratore che veniva scoperto, durante il godimento dei permessi di cui all'art.

33 della Legge 104 del 1992, ad arare il proprio terreno invece di prendersi cura della suocera disabile in nome della quale aveva ottenuto di utilizzare tali permessi.

La vicenda giudiziaria

Immediatamente, il datore di lavoro provvedeva a cacciare il lavoratore dall'azienda.Il lavoratore, vistosi recapitare il provvedimento di licenziamento, si rivolgeva al Giudice del Lavoro il quale si esprimeva in senso favorevole al provvedimento aziendale. A questo punto, il lavoratore, esperiti entrambi con esito negativi i giudizi di primo e secondo grado, proponeva ricorso per cassazione sostenendo che la condotta dell'azienda era nettamente contraria alle disposizioni di cui agli art. 2, 3 e 4 dello Statuto dei Lavoratori.

Secondo il ricorrente, gli accertamenti investigativi da parte del datore di lavoro sono ammissibili solo nella misura in cui sono destinati a tutelare il patrimonio aziendale ben diversamente dal caso di specie ove la condotta del titolare era lesiva della dignità e della libertà del lavoratore.

L'epilogo della vicenda

Anzitutto, la Cassazione distingue la possibilità di controlli investigativi in due ipotesi: a) il datore di lavoro non è legittimato a controllare il proprio dipendente se non nei limiti in cui ciò si renda necessario per la tutela del patrimonio aziendale; b) il datore di lavoro è legittimato ad effettuare controlli necessari laddove gli stessi siano necessari per verificare eventuali condotte illecite del lavoratore, senza possibilità alcuna per il dipendente di appellarsi alla violazione del principio di buona fede oppure al divieto di cui all'art.

4 dello Statuto dei Lavoratori. Nel caso di specie, trattandosi di caso ricadente sub b), l'operato del datore di lavoro deve ritenersi del tutto regolare. La Corte così conclude: è legittimo accertare l'utilizzo improprio dei permessi previsti dall'art. 33 della legge 104/92 e non sostanzia alcuna lesione dei diritti dei lavoratori, ciò anche al di fuori dell'orario di lavoro ed in un momento in cui risulta sospesa l'obbligazione principale relativa all'esecuzione del rapporto di lavoro.