Quando si parla di Pensioni, ovunque nel mondo ma soprattutto nel nostro Paese, il dibattito politico e sociale si infiamma. Gli argomenti e i punti di vista con i quali si affrontano sono, più o meno, sempre gli stessi: assegni troppo bassi, età di uscita troppo alta, anticipata troppo gravosa, opzione donna poco adeguata e via discorrendo. La prospettiva, insomma, è sempre e solo quella del cittadino che vorrebbe andare in pensione presto, ricevendo un assegno che gli consenta di mantenere lo stesso tenore di vita garantito fino a quel momento dal reddito percepito; o del pensionato che riceve un assegno al di sotto dei mille euro lordi, nonostante abbia probabilmente versato i contributi proporzionati a quella cifra.
Ed è proprio tra le pieghe di queste lamentele vittimistiche che la Politica populista trova il suo terreno fertile, per alimentare rabbia e sfiducia, soprattutto tra i giovani.
Ciò che non si approfondisce mai, però, al di là degli inserti e delle fonti di informazione specificatamente finanziarie, è l'aspetto meramente economico di tutta la macchina previdenziale. Cosa c'è, in realtà, dietro gli assegni da cinquecento euro lordi? Perché il 36,3% dei pensionati non supera i mille euro lordi? Come fa il 24,7% a percepire oltre duemila euro lordi al mese di pensione? Le risposte a questi e altri quesiti sono arrivate dal 7° Rapporto sul bilancio del sistema previdenziale italiano, redatto dal Centro studi e ricerche di Itinerari Previdenziali e riportato dal Corriere della Sera.
Le pensioni più alte sono quelle proporzionate ai contributi versati
Analizzando i dati, il quadro che emerge è ben diverso dalla narrazione che viene fatta di solito dai partiti e rilanciata sui giornali. Il motivo è molto semplice: la realtà è spesso impopolare, soprattutto quando si affronta una tematica così delicata, in un Paese in cui gli anziani rappresentano la fetta più ampia dell'elettorato.
Il dibattito politico, economico e sociale, in Italia, è da anni arenato sulla riforma pensioni, su come superare la Fornero, su come garantire forme di flessibilità in uscita; tutto ciò a discapito dello sviluppo economico, del lavoro, degli investimenti, dei giovani e, in sostanza, del futuro.
In questo quadro, insomma, è impopolare dichiarare che la situazione più sfavorevole la vivono in realtà le pensioni medie o medio alte, che da tempo non hanno le prestazioni indicizzate all'inflazione, o quelle tagliate senza alcuna motivazione scientifica.
La metà dei pensionati riceve in realtà dei sussidi o benefici assistenziali
Su 16 milioni di pensionati, all'incirca la metà è totalmente o parzialmente assistita dallo Stato, ovvero dalle tasse dei cittadini. Il 5,12% dei pensionati, più o meno 800 mila persone, usufruisce della pensione sociale: ciò significa che fino a 66 anni non hanno mai pagato né contributi sociali né imposte; e in assenza di redditi hanno poi richiesto l'assegno mensile. Altri 2,9 milioni di pensionati beneficiano dell'integrazione al minimo, pari a 513 euro al mese, ovvero quelli che in 67 anni anni di vita non hanno neppure 15/17 anni di contributi versati. Ci sono inoltre 160 mila pensioni di guerra, relative al conflitto del 1945, che vanno a beneficio dei superstiti.
A queste si aggiungono poi le pensioni di invalidità, con accompagnamento o meno, e le reversibilità.
Insomma, circa 8 milioni di pensionati ricevono in realtà sussidi e benefici assistenziali sui quali non gravano imposte. "L’Irpef - scrive il Corriere della Sera - grava sul 40% di pensionati che prendono più di 1.200 euro al mese"; ma in particolar modo, aggiunge il quotidiano, su tutti quegli ex lavoratori con assegni pensionistici da 2.000 euro in su, che sono il 24,7%, e che rappresentano le pensioni vere pagate con i contributi e le tasse di chi realmente le percepisce.