Non c'è ancora uniformità di intenti tra Governo e sindacati sulla riforma delle Pensioni e sulla possibilità di uscita anticipata e flessibile a partire dai 64 anni, come proposto dai tecnici di Palazzo Chigi. La proposta dell'esecutivo è quella di un assegno ridotto per andare oltre i limiti di requisiti imposti dalla riforma Fornero, ma i sindacati fanno i conti di quanto costi ai lavoratori andare prima in pensione. A fronte di un taglio ipotizzato del 3% sull'assegno mensile, le sigle ribattono con calcoli che portano a una decurtazione ben più sostanziosa della pensione.

Tra gli obiettivi della riforma pensionistica da varare nel 2022 per il prossimo anno, anche il superamento del sistema delle quote, soprattutto della quota 102 che, fino al termine dicembre, dovrebbe espletare l'unico anno di sperimentazione. E il governo non sarebbe favorevole all'adozione della quota 41 per tutti, come vorrebbero i sindacati.

Pensioni anticipate, la flessibilità in uscita all'età di 64 anni penalizzerebbe i lavoratori del retributivo e misto

Con il tavolo del 15 febbraio, il governo ha ufficialmente aperto alle proposte di riforma delle pensioni per il 2023. L'esecutivo di Draghi è favorevole ad ampliare le possibilità per i lavoratori di andare in pensione anticipata, prima dei 67 anni richiesti per la pensione di vecchiaia.

Ma la flessibilità in uscita, che dovrebbe essere garantita all'età alla quale converge il governo già dallo scorso anno - ovvero i 64 anni - non soddisfa i sindacati. Soprattutto perché la flessibilità, ipotizzata con un sacrificio dell'assegno mensile di pensione, per i sindacati comporterebbe una decurtazione ben più alta, calcolata anche fino al 30%.

Sono le stime fatte dalla Cgil sui lavoratori ricadenti nei sistemi previdenziali retributivo e misto, ovvero di coloro che hanno contributi entro il 31 dicembre 1995.

Pensioni anticipate a 64 anni di età e taglio 3% assegno: uscita assicurata solo a chi ha una pensione alta

Nel dettaglio della proposta del governo, la pensione anticipata flessibile con uscita a 64 anni andrebbe a uniformare i regimi contributivi.

Infatti, è già prevista dalla normativa previdenziale una formula di pensione anticipata a 64 anni con almeno 20 di contributi e un assegno di almeno 2,8 volte quello sociale. Il che significa che, nel 2022, per agganciare questa formula previdenziale, il futuro pensionato dovrebbe avere un mensile di almeno 1311 euro. Ma questa formula è riservata solo ai lavoratori del sistema contributivo, ovvero a coloro che hanno iniziato a versare dal 1° gennaio 1996. L'ipotesi del governo è quella di uniformare a questi requisiti anche i lavoratori dei sistemi previdenziali precedenti, e dunque i contribuenti del sistema retributivo e misto. Che andrebbero a perderci, in termini di assegno mensile, essendo i contributi versati fino al 1995 più impattanti sulle pensioni future.

Riforma pensioni 2022, quale uscita per i lavoratori del retributivo e misto? Le ultime novità

Da queste considerazioni, i calcoli della Cgil sulle pensioni a 64 anni con flessibilità in uscita, intesa come opzione percorribile ai contribuenti che desiderino lasciare in anticipo il lavoro, evidenziano che - soprattutto per i lavoratori del sistema contributivo misto, la stragrande maggioranza dei neopensionati dei prossimi anni - il taglio dell'assegno comporterebbero una perdita stimabile fino al 30% mensile. Ben più alta del 3% ipotizzato dai tecnici di governo. Calcoli che, al momento, non mettono d'accordo sindacati ed esecutivo. Lo stesso Alberto Brambilla, già consulente in passato del governo sui temi previdenziali, ha stimato la platea di chi potrebbe beneficiare di questa nuova formula di uscita: nel 90% dei prossimi pensionati, si tratterebbe di appartenenti al sistema misto.

La quota retributiva dell'assegno, per i contributi versati prima del 1996, peserebbe sul definitivo assegno di pensione solo per il 30%. Generando una perdita che la Cgil ha stimato nella stessa percentuale.

Pensioni 2023, governo contrario a uscita con quota 41 per tutti, età pensionabile dei sindacati entro i 63 anni

Le richieste dei sindacati Cgil, Cisl e Uil sulla riforma delle pensioni per il 2023, partono dalla possibilità per i lavoratori di andare in pensione all'età di 61 o di 62 anni, senza subire decurtazioni nell'assegno mensile di pensione. Inoltre, le sigle rivendicano il diritto di chi ha iniziato a lavorare nell'età dell'adolescenza (o poco oltre) di poter andare in pensione anticipata con 41 anni di contributi (quota 41).

Diritto che deve essere fatto valere indipendentemente dall'età di uscita e, soprattutto, eliminando dall'attuale quota 41 i vincoli propri (ovvero l'anno di contributi versato entro il 19° anno di età) e da quelli ereditati dall'Ape sociale (essere disoccupati, caregiver, inabili al 74% o appartenere ai lavoratori impiegati in mansioni gravose o usuranti). Sull'età di uscita i sindacati potrebbero essere disposti a trattare. Per Domenico Proietti della Uil, la flessibilità sarebbe da intendersi come "riallineamento all'età di accesso alla pensione applicata in Europa (63 anni), tenendo nel giusto conto i lavori gravosi, usuranti e precoci". Da non percorrere l'idea del governo di legare la flessibilità al ricalcolo contributivo, che produrrebbe una ulteriore penalizzazione dell'assegno mensile.