Le polemiche su Job Act e articolo 18 infuriano. Dal momento che il provvedimento contiene delle semplici - per quanto significative - indicazioni che solo i successivi decreti legge tradurranno in disposizioni concrete, oggi come oggi è difficile valutarlo nel dettaglio. Su un punto però tutti sono d'accordo: quest'ennesima riforma del mercato del lavoro, come tutte le precedenti realizzate negli ultimi 20 anni, da Treu alla Fornero, si basa su una premessa ben precisa, ossia che la flessibilità aumenterebbe l'occupazione e che in Italia la disoccupazione è alta perché la flessibilità è scarsa.
Si tratta di una tesi - di chiara scuola liberista - che la maggioranza dei politici, della stampa e della televisione da anni, soprattutto da quando sono iniziati i governi "tecnici" imposti o caldeggiati da Bruxelles, reputano indiscutibile, come fosse un dato di natura. Dal punto di vista economico, però, l'affermazione non ha alcuna seria base. Ovvero: non esiste nessuna evidenza scientifica né che l'Italia - oggi - sia un Paese a bassa flessibilità del mercato del lavoro, né che a una maggiore flessibilità corrisponda una maggiore occupazione.
Sul primo punto basterebbe leggersi quel che dice l'Employment Protection Legislation Index (EPL) dell'Ocse, che misura il grado di protezione generale dell'occupazione previsto dall'assetto normativo-istituzionale.
Ebbene, come ha ricordato anche l'economista Riccardo Realfonzo, l'indice dice che «l'Italia è tra i Paesi che si sono impegnati a fondo nel ridurre la protezione dell'occupazione, riducendo le tutele di oltre il 40%, dal valore 3,82 del 1990 al 2,26 del 2013» e oggi ha un mercato del lavoro con un indice di protezione assolutamente in linea con la media europea.
Né esiste, dice sempre l'Ocse, una eccessiva protezione per i lavoratori che hanno un contratto a tempo indeterminato.
Sul secondo punto, ovvero che a maggiore flessibilità si accompagnerebbe maggiore occupazione, è ora di dire che questo argomento, tirato fuori a più riprese da politici e sistema dell'informazione, è stato smentito già da anni persino dal Fondo Monetario internazionale, che pure non è certo un organismo nemico del liberismo.
Già nel 2006 infatti, il capo economista dell'Fmi Olivier Blanchard doveva ammettere che «le differenze nei regimi di protezione dell'impiego appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari Paesi». Del resto su tredici studi sul tema, uno soltanto mostrava una diminuzione della disoccupazione a fronte di un aumento della flessibilità, mentre gli altri dodici affermavano o il contrario o la mancanza di relazione tra i due fattori.
In altri termini, non sarà certo un ulteriore aumento di flessibilità a creare posti di lavoro. È più probabile, invece, che a più flessibilità corrispondano più precariato, meno diritti per i lavoratori e un ulteriore abbassamento dei salari. Ed è forse questo il vero obiettivo del Job Act.