Ha suscitato evidente scalpore la recente lettera di “avvertimento” controfirmata da 600 tra illustri, illustrissimi e meno noti docenti universitari: i nostri studenti non sanno scrivere in italiano. O meglio, scrivono male. Questo, in breve, è il messaggio che i luminari degli atenei di tutta Italia hanno voluto trasmettere al governo per stimolare un intervento rispetto a un dato decisamente preoccupante. È effettivamente inammissibile infatti che ci sia una considerevole quota di studenti universitari che continua a commettere errori grammaticali, ortografici e sintattici da terza elementare.

Ma di chi è la colpa?

La promozione a tutti i costi

È certamente innegabile che anche nel comparto scolastico, esistano delle mele marce che prendono la responsabilità del proprio lavoro con troppa superficialità e noncuranza protetti dal rifugio sicuro del posto fisso, ma certo non si può fare di tutta l’erba un fascio: sono moltissimi i docenti che, malgrado le assurde proteste di genitori indignati per un cattivo voto o per un rimprovero considerato oltraggioso, a dispetto di uno stipendio che non li valorizza e nonostante le condizioni lavorative che rendono il mestiere dell’insegnante un lavoro a tutti gli effetti “usurante”, vanno avanti nel cercare di trasmettere il massimo ai loro studenti anche senza chissà quali gratificazioni o riconoscimenti, ma per pura passione.

In cosa è da ricercarsi allora la responsabilità di questo deficit che rasenta l’analfabetismo? Sicuramente un fattore da non sottovalutare è il ricorso alla bocciatura, divenuto ormai sempre più raro. Nonostante infatti negli anni sessanta e settanta fosse un fenomeno largamente usato (forse pure troppo) i dati odierni mostrano un’inversione di tendenza forse ancora più preoccupante: nell’ a.s.

2015/2016 infatti la bocciatura alle scuole elementari ha avuto luogo in casi estremamente eccezionali (e spesso comunque previo consenso delle famiglie), mentre alle medie la percentuale si attesta ad appena il 4% degli studenti. I numeri salgono alle superiori ma rimanendo comunque in decisamente bassi (12,4% per i professionali, 9,8% negli istituti tecnici e solo il 4,3% nei licei).

La rivoluzione digitale e l’addio ai libri

Un altro fattore rilevante è il crescente uso di smartphone e tablet che occupano la stragrande maggioranza del tempo libero degli studenti: le nuove generazioni crescono guardando come idoli i propri coetanei su Youtube e leggendo contenuti che non fanno certo della sintassi italiana una prerogativa. Di questo passo non c’è certo da aspettarsi che tali modelli possano incoraggiare un uso più corretto e consapevole della lingua. Oltre alla fruizione dei contenuti online sempre più poveri da un punto di vista grammaticale, si aggiunge un altissimo tasso di abbandono della lettura: dal 2010 infatti i giovani maschi tra gli 11 e i 14 anni che leggono è infatti precipitato del 25% (e già il punto di partenza prima del 2010 segnava un forte ritardo rispetto ad altri paesi europei).

In aggiunta a ciò è importante rilevare che anche gli stessi atenei non fanno molto per incoraggiare il colmarsi di certe lacune: all’università si scrive pochissimo e spesso dal tema di maturità si fa un salto diretto alla tesi di laurea. Se da un lato gli studenti universitari scrivono così poco, dall’altro studiano tanto. Ma cosa leggono? Quale contributo può dare al potenziamento delle conoscenze linguistiche un manuale di anatomia o di matematica? Uno studente di giurisprudenza al di là di giganteschi codici legge qualcos’altro? A Scuola ci si sforza di saldare la lettura alla produzione di testi scritti, mentre all’università le due competenze si sganciano spesso. Appare chiaro quanto, tra tante criticità, sia superfluo e fuori luogo accusare l’operato degli insegnanti che anzi, troppo spesso diventano spettatori impotenti di un declino di massa.