Ed ecco, o meglio riecco, Romano Prodi. Proprio quando lo pensavi ormai lontano, il Professore. Magari assoldato dalle Nazioni Unite come inviato speciale in qualche zona del continente africano, o attivo come consulente per una qualche istituzione bancaria. Dopo la presidenza del consiglio e la presidenza della Commissione Europea, l’uomo per ogni stagione è stato, di recente e a più riprese, nuovamente interpellato sulla situazione italiana.

A quanto pare c’era bisogno parlasse lui. Lui, che come dice Giuliano Pisapia è tanto stimato nel centrosinistra, leader così aggregante che su una sua candidatura alla presidenza del consiglio l'ex sindaco di Milano metterebbe la firma.

Ma vediamo con quali parole Prodi ha contribuito al recente dibattito sulla legge elettorale. Brevemente, e prendendolo come paradigma di una forma mentis largamente diffusa, vero obiettivo polemico di questo scritto.

La contraddizione di Prodi: governabilità ma democrazia

Gli aspetti di cui una legge elettorale si dice debba tener conto sono due: rappresentanza e governabilità. Non interessa, qui, se a torto o a ragione, ma c’è un fatto: Romano Prodi non nomina mai la necessità della rappresentanza politica (che, è bene ricordarlo, qualifica in senso stretto un regime democratico). Per contro, tanto nel corso della trasmissione Omnibus il 10 maggio che durante Otto e Mezzo del 18 maggio, il Professore non ha mancato di rimarcare il rischio di una assenza di governabilità.

Non risparmiandosi, si è ripetuto in occasione del congresso della Cisl (29 giugno).

Ma dietro il nome così politically correct di “governabilità” sta in realtà qualcosa di molto meno candido, e Prodi lo lascia trapelare. Così si è infatti espresso nel corso della trasmissione della Gruber: «Se il PD avesse il 55% il problema [dell’alleanza con Pisapia] non si porrebbe nemmeno».

Traduciamo queste parole, e collochiamole all’interno dell’attuale situazione italiana: se un partito, con una linea ben decisa, avesse l’appoggio di circa il 30% degli aventi diritto di voto (considerando un livello di astensione tra il 30 e il 40%, e senza contare tutti coloro che pur residenti in Italia non godono di tale diritto), saremmo di fronte a una investitura tale da non richiedere più discussioni, né accordi con nessuno, né ricerca di politiche condivise.

In poche parole, “governabilità” così intesa si configura addirittura come dittatura quadriennale di una minoranza. Evidentemente questo varrebbe anche nel caso in cui ad avere il premio di maggioranza fosse una coalizione di partiti, dunque se quel 55% il PD lo raggiungesse con Pisapia. Il succo non cambia.

Fa perciò una certa impressione sentire Prodi, pochi minuti dopo, lanciare l’allarme dell’autoritarismo: «Stiamo andando verso uno strano concetto di democrazia, in cui la diversità è un vizio, è un dramma… guardate che sta succedendo in tutto il mondo, eh? Attenzione, che qui è un rischio fortissimo. E… guardate che nell’idea dell’elettore adesso, mentre prima c’erano (se volete in modo eccessivo) le correnti, le diverse opinioni, e quindi il dibattito diventava un dibattito vero, vivo, oggi questo è vissuto come un male, e si cerca colui che dà l’unanimità non discussa.

E… in tutto il mondo si sta andando verso questo concetto di democrazia autoritaria, no?, dalla Cina, all’India, alla Russia, alla Turchia... agli Stati Uniti! E… stiamo attenti, che questo è un brutto rischio, è un brutto rischio». L’impressione che non si può fare a meno di ricavare è che quest’ultima postura riflessiva nasca dalla necessità di contrastare la leadership di Matteo Renzi, ben più che dalla voglia di rispolverare il dibattito democratico quale arena per la gestione del conflitto politico-sociale.

Scomparsa del criterio di rappresentanza

Ma Prodi ci è qui servito solo quale caso particolarmente esemplificativo di una prospettiva largamente condivisa. Le retoriche che ha usato sono infatti diffusissime, tanto tra gli uomini di partito quanto tra le pieghe della società civile.

Il termine “governabilità” ha oramai iniziato a designare un valore, senza che se ne percepisca la netta contrapposizione con il termine “democrazia”. I reazionari e conservatori delle più varie epoche ne sono stati spesso più consapevoli degli altri, ed è perciò che hanno lottato per quella che oggi, noi, chiamiamo “governabilità” e hanno combattuto il criterio della rappresentanza politica.

Sarebbe forse il caso di pensarci su, focalizzando che la democrazia rappresentativa non dovrebbe garantire stabilmente nessun governo, che l'ingovernabilità è il suo cardine, che l'assenza di governabilità viene sventolata quale minaccioso spauracchio senza in realtà neanche sapere di cosa si parla. I cittadini governano, non sono governati. Altrimenti, si adottino pure altri sistemi. Solo, pere favore, non li si chiami democratici.