Dal principio platonico della kalokagathia, ciò che è bello è anche buono, dunque quel che è malvagio è anche brutto. Dalla fisiognomica criminale di Cesare Lombroso al metodo Bertillonage, si arrivò nel 1905 alle impronte digitali per schedare un presunto criminale, bello o brutto che sia; ma questo metodo, riportano le ultime ricerche dell'Aaas sul Fingerprint, non è un metodo univoco ed infallibile per il riconoscimento di un individuo, un potenziale criminale; se si aggiunge che i guanti esistono sin da tempi omerici, alla polizia giudiziaria non rimane che escogitare altre strategie per incastrare un indiziato.

Eppure sembra che si stia tornando a metodi fisiognomici per il riconoscimento di un sospettato: l'identificazione dei dati biometrici del volto è già una realtà sui social network, e applicazioni dell'iPhone di cui si stanno dotando nella lontana America consentono la subitanea identificazione fotografica del sospettato. Anche questo non è sufficiente, la tecnologia biometrica si sta spingendo oltre o, per meglio dire, leggermente più in basso: se la sicurezza nelle connotazioni facciali può cedere, perché non dirigere lo sguardo sulle labbra? La ricerca adesso punta alle impronte labiali, attraverso l'analisi delle scanalature e delle pieghe della bocca.

La domanda da porsi a questo punto dell'innegabile progresso della ricerca scientifica è: se il corpo è carne e la carne cede, bastano un paio d'anni di latitanza ed anche le connotazioni labiali cambieranno.

Esistono molti software e sistemi di riconoscimento la cui attendibilità garantisce oltre il 90% di sicurezza, come attesta la FaceVACS-VideoScan sviluppata dalla compagnia tedesca Cognitec, impiegata nei sistemi di riconoscimento biometrico installati negli aeroporti e nei casinò. Tecnologie indiscutibilmente utili, se non fosse che sembra esser tornati o mai usciti dall'incubo benthamiano del Panopticon.

La conseguenza sulle persone

Non siamo mai soli e il non esserlo cede il posto alla felicità dell'essere visti piuttosto che alla paura di esserlo in ogni momento; questo il paradosso, perché dentro l'ottica descritta ampiamente negli studi di Zygmunt Bauman c'è esattamente l'amara consapevolezza che a vincere è l'insicurezza dell'individuo verso l'altro individuo, tanto da escogitare metodi ipertecnologici per il suo incessante monitoraggio.

Abbiamo paura, non del diverso, non del criminale o del brutto ceffo, ma dell'Altro. L'unico metodo esorcizzante di quest'irrazionale timore appare il controllo di esso. Paure di questo tipo provengono paradossalmente dai Paesi Sviluppati, in cui lo sviluppo economico incrementa un sistema di Welfare votato alla paura, spingendo gli individui a chiedere forme sempre più stringenti di sicurezza, sistemi ineccepibili d'allarme che scatterebbero al volar di una mosca, attivando un cerchio nefasto di respingimento dell'altro. Ciò che si richiede all'ex Stato Nazione è protezione e sicurezza.

Ma da cosa? Se s'incappa in un vespaio e si viene punti fino alla morte per reazione allergica sarà senz'altro opera di un'organizzazione terroristica; se crolla un palazzo fatiscente in un centro storico sarà frutto del sordido piano di un extracomunitario (anche se a nessuno verrebbe in mente di dare dell'extracomunitario ad un americano in vacanza romana).

Ecco la soluzione postmoderna: raggiungere la sicurezza con l'auto-reclusione da coprifuoco h24, rifugiarsi a Brasilia col rischio di contrarre la brasilite e giocare a nascondino. Chiudersi in casa perché il nemico è dietro l'angolo, è quello lì, quello dalla brutta faccia descritta da Lombroso nel 1876. La richiesta è di costruire nuovi spazi di reclusione, la trasposizione tangibile dell'insetto che scappa per la paura dell'uomo e l'uomo che scappa per la paura dell'insetto.