I disordini nel territorio di Hong Kong non si lasciano intimorire dall’emergenza sanitaria in atto ed assumono sempre più i connotati di una “rivoluzione colorata”, nel senso che l’ingerenza da parte di paesi terzi si fa sempre più stringente. UE e USA in primis, ma anche le Nazioni Unite, i cui gruppi di esperti sui diritti di libertà d’assembramento pacifico ed associazione - i c.d. Special Rapporteurs - temendo il rischio di grosse violazioni dei diritti umani in atto, sono intervenuti.

La mozione UE

Il 18 luglio 2019 la risoluzione del Parlamento europeo si è espressa su varie voci, tra cui:

  • ritiro dell’emendamento sull’estradizione (in primis);
  • il rispetto della condizione speciale di Hong Kong;
  • il rilascio dei manifestanti pacifici e il relativo decadimento delle accuse a loro carico;
  • la condanna delle interferenze cinesi, così come delle recenti asserzioni del governo centrale secondo cui “la dichiarazione del 1984, in quanto un documento storico, non sarebbe più attendibile”.

In risposta Pechino ha bollato la mozione come “frutto di ignoranza e pregiudizio”; “discernimento fallace tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

L'Unione Europea starebbe in tal modo "puntando il dito e dando ordini”, avrebbe detto il portavoce di Xi Jinping.

Gli interventi di Trump

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, le iniziative, o meglio, le varie “considerazioni” di Trump a riguardo, sono sempre risultate piuttosto confusionarie. Il presidente americano avrebbe più volte sminuito, riferendosi alle proteste come“riots” - rivolte, focolai.

Il buco nell’acqua cui è approdata la sua guerra commerciale nei confronti della Cina -in fase di tregua, ma per modo di dire- fa di Hong Kong un’importante leva. Ed è presto detta, in base a ciò, anche la ragione dietro la sospensione dei fondi forniti alla WHO, ritenuta da Trump alla stregua di un'agenzia delle pubbliche relazioni cinesi: un ricatto nei confronti dell’Organizzazione.

La ripresa delle proteste

Sabato 18 aprile, ad Hong Kong, gli animi sono tornati a scaldarsi: quindici esponenti politici pro-democrazia - tra cui pure l’ottantunenne Martin Lee, fondatore dello stesso partito democratico - sono stati arrestati per avere preso parte a “proteste fuorilegge". Un vero e proprio tiro mancino, questo, in un momento storico così delicato, in cui le democrazie occidentali sono in ginocchio e dipendenti dalla Cina.

A Domenica 10 Maggio risalgono gli ultimi disordini: intonando l'inno "Glory to Hong Kong" gruppi di attivisti mascherati si sono diffusi in almeno otto centri commerciali del quartiere di Mong Kok cercando di depistare la polizia, la quale avrebbe risposto usando spray urticanti e manganelli e colpendo anche alcuni giornalisti.

Diciotto sarebbero i feriti, tra cui anche Roy Kwong, parlamentare pro-democratico. Insomma, lungi dall’essere sopita, la questione è più accesa che mai.

I timori delle Nazioni Unite

Le Nazioni Unite appaiono preoccupate del fatto che tra gli arresti del 18 aprile - prelevati in pieno lockdown - vi siano dei celebri penalisti, membri di spicco dell’IBA (International Barristers Association) i cui contributi in favore della protezione dei diritti umani e del perseguimento della giustizia sono da tempo largamente riconosciuti.

Si tratta in maniera neanche poco furtiva di voler suscitare uno “shock and awe effect, di intimidire, lasciare attonita, Hong Kong. Gli analisti prevedono un’intensificazione di questa strategia, con decorrenza alle elezioni legislative di settembre.

C’è poi da dire che gli arresti sono arrivati poche ore dopo la dichiarazione da parte dell’ufficio delle pubbliche relazioni cinesi, insieme all’ufficio per gli affari di HK e Macau (HKMAO) che li “autorizzava – col beneplacito delle autorità centrali- ad occuparsi degli affari di HK garantendo un alto livello di autonomia”. Il che va in discordanza netta con l’art. 22 della Basic Law, che sottolinea il diritto ad una piena e totale –non elevata- autonomia.

Perché la Cina vorrebbe strangolare la sua gallina dalle uova d’oro?

In realtà negli anni -soprattutto l’ultimo trentennio- la dipendenza cinese da HK si è notevolmente ridotta. Il suo PIL è passato dal costituire i due terzi del totale cinese negli anni ’80 a meno del 3% nel 2019, rendendola approssimativamente simile in termini economici a regioni come Shenzhen o Guangzhou: utile sì, ma non indispensabile.

Il Bandwagoning tra le parti

La questione appare un costante “scaricabarile”, in cui i capi internazionali vengono accusati di avere “frainteso” quel che sta succedendo ( e tacciati di apriorismo), la Cina continentale bolla come rivoltosi e null’altro gli hongkonghesi, questi ultimi incolpano i cinesi di ingerenze di qualsiasi sorta.

La realtà di Hong Kong costituisce un unicum. Il suo sviluppo storico ( e culturale) è tale da giustificare un decorso differente: non accettarlo ed imbrigliarla agli standard continentali vorrebbe dire fomentare spinte separatiste.

E' evidente che lo status attuale stia ormai stretto ad Hong Kong

Il futuro più o meno prossimo dell’isola, al lume dello scenario attuale, è veramente impossibile da prevedere.

Il rischio più tangibile è però quello di una “politicizzazione del virus”, in cui Hong Kong potrebbe sfruttare il ridimensionamento della mobilità con la madrepatria per impedirle di fatto di approdare sull'isola, la Cina continentale approfittare delle necessità di dispositivi di protezione personale sanitari per tenere sotto scacco l’isola.

Se le cause alla base delle proteste non verranno affrontate, diventerà sempre più difficile fare affari e molte persone semplicemente sceglieranno di lasciare Hong Kong. Forse Hong Kong ha sempre sperato che la Cina progredisse in termini di libertà sociali e politiche, che riuscisse a "tenderle la mano", ma ad oggi, la possibilità di una mediazione appare sempre più remota.