Chi lo conosce bene è convinto che dalla scoppola elettorale saprà rigenerarsi e ripartire più forte di prima. Lui, Matteo Renzi, ha già fatto sapere di voler cambiare passo ripartendo da quelle certezze che lo hanno catapultato a Palazzo Chigi. Via il vestito buono da premier, riecco la versione da rottamatore: la più accattivante, la più diretta, la più premiata dai consensi incassati. O tutto o niente, con buona pace di una forzata vena diplomatica pure necessaria a serrare le fila di un partito che vive la sua quotidianità nello screzio e nella lotta tra bande.

L'incoronazione senza elezione

Il più grande errore della storia politica (vincente) di Matteo Renzi è datato 8 dicembre 2013, giorno della sua promozione d'ufficio a premier. Non si diventa bravi generali senza passare dalle esperienze sul campo. Il buon Matteo ne è consapevole, ma la smania di arrivare in quel palazzo è troppo forte per dire "non posso accettare". Napolitano, incautamente, punta tutto sull'ex sindaco di Firenze trascinato poco prima in sella alla segreteria Pd via primarie. Il salto è notevole, il rischio pure. Renzi si ritrova di colpo da una parte, a tirare le redini di un partito tristemente lacerato e dall'altra, a rappresentare una classe politica che puntava a rottamare.

Lo scontro frontale con la ditta

Iniziano i compromessi, le scelte attente agli equilibri, gli slogan televisivi. L'Italia però inizia a ripartire e, di conseguenza, l'opposizione interna non può che defilarsi. Lo straordinario successo alle elezioni europee fa commettere a Renzi un grave peccato di presunzione: credere che quel consenso sia il placet dell'elettorato a un impianto di riforme quantomeno discutibili.

Il presidente del Consiglio accelera bruscamente l'iter legislativo e, conscio di un consenso senza precedenti, a suon di voti di fiducia disegna la sua rivoluzione per Giustizia, Lavoro e Scuola. Temi delicati, forieri da sempre di polemiche spesso ideologiche. La sinistra PD si defila, in molti dicono addio.

I nodi vengono sempre al pettine

La condizione di intoccabile per Renzi viene velocemente ridimensionata alle consultazioni prima Regionali e poi Comunali. Il premier conosce la sua prima crisi. Certo non clamorosa come in molti puntano a far credere, ma comunque importante. Le urne riconsegnano il Paese in una incertezza politica simile a quella del 2013, lo scandalo di Mafia Capitale fa il resto. Il Centrodestra, dato in via d'estinzione, strappa alla concorrenza tre luoghi simbolo della sua storia: Liguria, Arezzo e Venezia. Cinque Stelle e Lega galoppano sul territorio, svolgendo quella funzione di radicamento e di rappresentanza fiduciaria degna di quei vecchi partiti che in tanti rimpiangono.

Il territorio premia la voce del M5S

Le vittorie di Quarto, Venaria, Porto Torres, Gela e Augusta consolidano la crescita del M5S. "Stiamo raccogliendo i frutti di un lavoro che viene da molto lontano" ha commentato Roberto Fico, tra gli esponenti di spicco del Movimento. "Rappresentiamo un nuovo modello - ha spiegato - che restituisce alle persone la bellezza della partecipazione alla politica". Resta tuttavia altissima la percentuale di elettori che decidono di non scegliere: "Mi auguro che l'affluenza cresca perché altrimenti si permette ad altri di decidere e male per noi stessi". La mancata alleanza con Casson a Venezia ha sancito la clamorosa sconfitta del candidato PD. Una scelta, quella di rifiutare intese di governo, che il M5S confermerà anche in futuro: "È la strada maestra frutto di una coerenza che simboleggia un grandissimo atto rivoluzionario in un Paese dominato dall'incoerenza".

Il nome di Roberto Fico è stato spesso accostato alla corsa per il Comune di Napoli. Ipotesi che il presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza Rai si sente di smentire: "Sono stato eletto per un incarico e quindi sono incandidabile per altri ruoli, non siamo come la Moretti (parlamentare PD, europarlmentare e infine candidata governatore in Veneto ndr)". "Dobbiamo uscire fuori dalla politica delle facce che spostano voti - ha concluso Fico - perché il Paese non ha bisogno di leaderismo, ma di lavorare sui temi veri".