L’effetto-Trump ha determinato un’evoluzione nella situazione in Medio Oriente, dopo che, per alcuni mesi, le parti in causa avevano continuato a combattersi su posizioni di sostanziale stallo. Sul fronte siriano, infatti, l’offensiva russo-governativa su Aleppo, si è conclusa con la vittoria dei lealisti di Assad i quali, hanno conquistato gli ultimi quartieri della città, dove gli insorti, sinora appoggiati dagli USA, sono stati costretti ad abbandonare le posizioni.
Contemporaneamente, altri territori sembrano essere stati riconquistati dai governativi nei dintorni di Damasco, dove molte sacche di insorti hanno accettato di ritirarsi verso la provincia di Idlib (ancora in loro mano) o di rinunciare alla lotta, in cambio di un amnistia.
Nel medio periodo si può ipotizzare che il governo riprenda il controllo della quasi totalità dell’area costiera ancora controllata dai ribelli.
Con la riconquista di Aleppo e la messa in sicurezza del corridoio Aleppo-Damasco, fondamentalmente strategico, quindi, le sorti della guerra in Siria hanno dato un responso decisivo a favore di Bashar al Assad, il quale ha già dichiarato la conclusione vittoriosa della sua “guerra di liberazione”.
Curdi o Erdogan?
Da non sottovalutare, in vista degli assetti futuri, l’alleanza sempre più stretta tra i governativi siriani e i curdi, sia per quanto riguarda la riconquista di Aleppo che per quanto riguarda la ripresa di alcuni territori, temporaneamente occupati dalla Turchia, ufficialmente per combattere l’ISIS nella sua roccaforte di Rakka ma, in realtà, per dividere l’entità curda di Siria in due parti.
Ciò ha messo fine al breve idillio tra Erdogan e Assad, durato lo spazio di un mattino. Saranno Trump e Putin a decidere se, sugli altari della futura pacificazione dell’area, saranno sacrificate le esigenze dei curdi o quelle di Erdogan.
Di converso, tuttavia, l’ISIS, con un colpo di coda, si è impadronita nuovamente di Palmira, Patrimonio mondiale dell’Umanità nell’indifferenza assoluta degli Stati Uniti e degli altri paesi occidentali.
Anche in questo caso, l’unica potenza a reagire è stata la Russia che si è subito impegnata in altri bombardamenti aerei nell’area.
Petrolio a 60 dollari al barile
A tali offensive è sembrato accompagnarsi un oggettivo cambiamento di politica economica da parte dell’Arabia Saudita, – sulla carta – ancora alleato di Washington e principale nemico del costituito asse Mosca-Teheran e Assad.
A inizio dicembre, infatti, l’OPEC – di cui i sauditi costituiscono l’azionista di riferimento – ha approvato i tagli alla produzione di petrolio, consentendo al prezzo del greggio di tornare sensibilmente a salire, sino a 55-60 dollari al barile.
Sicuramente, ciò contribuirà a far rientrare in mercato la produzione iraniana che ha un costo di estrazione superiore a quello degli altri paesi arabi del Golfo ed è anche un primo indice di disinteresse, da parte di Ryad, a contrastare la crescita dell’influenza di Teheran nell’area, sinora perseguita anche con l’appoggio allo Stato islamico dell’ISIS.
Non bisogna dimenticare, infatti, che la Turchia di Erdogan, insieme ad ISIS, è stata sinora l’attore su cui contava apertamente Ryad per bloccare il costituirsi di un corridoio Iran-Kurdistan e Siria di Assad che mira a condurre la produzione di greggio iraniano (e di gas russo) direttamente sulle sponde del Mediterraneo.